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Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2014 alle ore 08:13.

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Con le sue 21819 parole il testo del profeta Geremia è in assoluto il libro più lungo dell'Antico Testamento, tallonato solo dalla Genesi (20611 parole). Si tratta di un'opera che pone ardui e fin inestricabili problemi storico-critici a causa della presenza di più mani e di enigmatiche asperità testuali, al punto tale che l'antica versione greca detta "dei Settanta" offre una differente impostazione strutturale. Eppure siamo di fronte a uno scritto di grande fascino, soprattutto nelle parti ove entra in scena l'"io" del profeta il cui autobiografismo tormentato e fin lacerato rivela una sorprendente modernità. Non per nulla due scrittori ebrei del Novecento, testimoni della tragedia della loro comunità sotto il cupo sudario di sangue del nazismo, sono ricorsi proprio a Geremia, l'inascoltato testimone del crollo di Gerusalemme sotto le armate babilonesi nel 586 a.C., per gridare la loro sventura.
Da un lato, c'è l'ebreo viennese Stefan Zweig, che morirà suicida con la moglie nel 1942 in Brasile, durante il carnevale di Rio. Già nel 1917, molto prima dell'avvento di Hitler, egli aveva composto il dramma Jeremias, un'opera fieramente antimilitarista nella quale il profeta si ergeva a "baluardo del sentimento della fede contro l'insensatezza del tempo", come egli stesso dichiarava, con la certezza, però, che "tu, o Dio, ci hai indebolito nel corpo ma rafforzato nello spirito". D'altro lato, c'è invece Franz Werfel, ebreo praghese, amico di Kafka e di Max Brod, costretto a morire esule in California nel 1945 ove si era rifugiato dopo aver sposato la vedova di Mahler. Höret die Stimme (Ascoltate la voce) s'intitolava il romanzo del 1937 che sarebbe stato riedito nel 1956 col nome esplicito del protagonista, Jeremias, le cui esperienze amare di isolamento e di persecuzione sono lette come una rigenerazione dalla quale rinasce non solo un nuovo uomo ma anche una nuova religiosità, decisamente più alta di quella dei vincitori babilonesi.
Ebbene, una delle ragioni più immediate del fascino esercitato da questo profeta – oltre quella dell'essere vissuto come protagonista solitario e contestato in un'epoca cruciale per l'ebraismo biblico, destinata a sfociare nell'esilio "lungo i fiumi di Babilonia", come canta il Salmo 137 – è legata proprio allo svelamento senza pudori della sua intimità, coi suoi tormenti, dubbi, proteste e persino con un filo nero di disperazione. È ciò che domina in alcune pagine disseminate nei capitoli 11-20, oggetto di ripetute analisi perché "esse costituiscono il centro di qualsiasi interpretazione di Geremia", come affermava uno dei maggiori anticotestamentaristi, il tedesco Gerhard von Rad. Ora abbiamo a disposizione un saggio completo e specifico su queste che, sulla scia del capolavoro agostiniano, si è soliti denominare come le Confessioni di Geremia. A condurci per mano, parola per parola, attraverso ogni singola unità letteraria e i relativi contesti è un biblista di grande rigore e finezza esegetica, il veneto Gianni Barbiero, salesiano, docente in passato in Germania e ora al Pontificio Istituto Biblico di Roma.
La sua è, sì, un'investigazione "tecnica" ma svolta in modo trasparente e didattico (il volume raccoglie una serie di lezioni). Essa si apre con una pagina emozionante, quella della vocazione del giovanissimo Geremia nella primavera del 626 nell'orto di suo padre, il sacerdote Chelkia ad Anatot, un villaggio ormai inserito nell'area metropolitana di Gerusalemme (a 6 km a nord-est del centro). Parlavo di orto e di primavera perché uno dei simboli dominanti nel racconto del capitolo 1 del libro profetico è un albero di mandorlo. Attorno ad esso si intesse un gioco di parole possibile solo in ebraico: il mandorlo è shaqed e il Signore, spazzando via i dubbi del giovane sulla sua investitura profetica, si presenta come il suo shoqed, "colui che vigila" su di lui proteggendolo. Commenta Barbiero: «Il mandorlo è il primo albero a fiorire dopo l'inverno e presenta quelle nuvole bianche che allietano le brulle colline della Giudea o, in Italia, della Sicilia, tanto che a Trapani in febbraio c'è la festa del "mandorlo in fiore". Il mandorlo in fiore dice che, contro le apparenze, la vita non è morta e che presto esploderà. Come per la vegetazione, così accade per la parola di Dio».
Tuttavia per Geremia ritornerà ben presto l'inverno e le sue "Confessioni" sono la schietta e talora veemente rimostranza scagliata contro Dio che gli aveva promesso una primavera e l'ha, invece, scaraventato tra i ghiacci di un inverno che non finisce mai, tali e tante sono le prove a cui la missione profetica lo sottopone. Emblematica a questo riguardo è la più celebre delle "Confessioni", la quinta e ultima, presente nel capitolo 20 (versetti 7-18). Essa sembra proprio risalire al lontano giorno primaverile della vocazione per definirlo con ribrezzo un atto di "seduzione" da parte di Dio: non, però, una seduzione amorosa, ma un vero e proprio adescamento (Abraham Heschel, il noto filosofo mistico ebreo, arrivava al punto di parlare di "stupro"!), un atto vile di circonvenzione di un giovane inesperto perché consenta a un progetto turpe. Si intuisce, perciò, l'esasperazione del profeta, che rasenta la bestemmia e che però è costretto a riconoscere nel prosieguo del testo la sua impotenza a sottrarsi a quella missione anche ora, da adulto.
Infatti, continua: «Mi sono detto: Non voglio pensare a lui, non voglio più parlare in nome suo! Ma nel mio cuore c'era come un fuoco ardente chiuso nelle mie ossa. Mi sono sfinito nel contenerlo, ma non ci riesco!» (20,9). Ed ecco, allora, come un fiotto che esce dalla sua bocca e diventa l'urlo finale, scandito da una doppia maledizione: «Maledetto il giorno in cui sono nato! ... Maledetto l'uomo che ha portato a mio padre il lieto annuncio: Ti è nato un figlio, un maschio! E l'ha colmato di gioia... Perché non mi ha fatto morire fin dal grembo materno e mia madre sarebbe stata per me la mia tomba...?» (si legga 20,14-18). Bastano solo i pochi frammenti citati, che Barbiero svela in tutte le loro fosche e sanguinanti iridescenze assieme agli altri testi, per stimolare il ritorno a queste pagine profetiche che molti esegeti ritengono sorte in forma autonoma e solo successivamente inserite nel corpus del libro geremiano. In esse pulsa il respiro di dolore dell'intera umanità che sale ininterrottamente dalla terra al cielo, ma sembra anche possibile intravedere già il grido rauco di Gesù sulla croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».

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