Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 06 luglio 2014 alle ore 08:13.

My24

Sessant'anni fa gli Stati Uniti abolivano la segregazione scolastica: da allora, almeno in teoria, tutti possono frequentare le stesse scuole, a prescindere dal colore della pelle. Mentre a Topeka, in Kansas, Michelle Obama celebrava l'anniversario con un bel discorso su come si combatte il razzismo, Nicholas Wade annunciava su «Time» (Cosa ci dice la scienza su razze e genetica; 9 maggio 2014) che «l'analisi dei genomi di tutto il mondo stabilisce che le razze hanno una base genetica, nonostante importanti organizzazioni nelle scienze sociali sostengano il contrario».
Mettiamolo subito in chiaro: l'analisi dei genomi non stabilisce affatto quella roba lì; al contrario, è ormai evidente (tranne a chi non vuol capire) che, per descrivere la biodiversità umana, l'idea ottocentesca che siamo divisi in razze distinte non funziona. Ma in realtà nell'articolo di Wade di genetica non c'è traccia. I genetisti, paradossalmente, potrebbero quasi esserne contenti: la loro disciplina è diventata una bandiera da sventolare per farsi prendere sul serio, i ciarlatani ci fanno ricorso per darsi una parvenza di attendibilità. Ma così si finisce per sottovalutare un fenomeno (politico: qui la scienza c'entra solo in modo strumentale) che invece non va preso sottogamba. Come altri suoi concittadini della destra estrema, Wade è stufo di giocare in difesa: basta coi sensi di colpa. Non nega affatto che nella società americana i bianchi (certi bianchi, fra cui quelli che leggono «Time») dispongano di risorse che agli altri sono negate: case migliori, scuole migliori da cui si accede a posti di lavoro meglio retribuiti. Però, in polemica con chi vorrebbe per tutti pari opportunità, ci dice che la disuguaglianza sociale va accettata, e anzi promossa, perché naturale: in America si vive così bene, non nonostante, ma in virtù di, queste disparità.
Il percorso per arrivare a conclusioni così impegnative è tortuoso, e vale la pena di seguirlo con attenzione. Lo storico Gregory Clark, racconta Wade, avrebbe dimostrato che la "propensione a lavorare" è aumentata in Inghilterra nel 17esimo e 18esimo secolo; la prova starebbe nell'aumento di ore lavorate nello stesso periodo. Ma non sarà stato invece lo sviluppo dell'industria a richiedere orari di lavoro sempre più lunghi, e alla fine disumani? Clark è sicuro di no: gli inglesi hanno fatto la rivoluzione industriale perché avevano tanta voglia di lavorare. Basterebbe leggere Dickens per farsi venire qualche dubbio, ma andiamo avanti. Da dove verrebbe questa passione per il lavoro, a cui andrebbero attribuiti i successi dell'Impero Britannico? Ma dai geni, naturalmente: secondo Clark, in quei due secoli (a differenza che nel presente) i ricchi avevano più figli dei poveri. Ed ecco la stupefacente serie di equazioni che ne consegue: i ricchi sono congenitamente migliori dei poveri («i figli ereditano dai genitori le stesse attitudini che li hanno resi ricchi»); più figli fanno i ricchi, più cresce la qualità genetica della popolazione; e viceversa, se i poveri si ostinano a fare tanti figli, andrà sempre peggio. Quindi, che non ci salti in mente di ridurre gli squilibri sociali, finiremmo per peggiorare ereditariamente (ecco dove starebbe la genetica) la società in cui viviamo.
Wade non ha bisogno di dirlo esplicitamente, ma la conseguenza è una sola: cercate di non nascere poveri e neri, e se no arrangiatevi. Non si tratta di idee nuovissime, ma oggi vengono rilanciate dal cosiddetto potere bianco, in inglese white supremacy: il movimento che considera minacciata l'egemonia bianca nella società americana, e fa di tutto per difenderla. La genetica, come si vede, è solo un espediente retorico. Che i ricchi bianchi siano biologicamente superiori ai poveri neri è un vecchio cavallo di battaglia segregazionista, certo non il risultato dell'analisi dei genomi. Ma può funzionare, in tempi di opinione pubblica disorientata. Certi bianchi, e non più i membri del Ku Klux Klan, ma stavolta i lettori di «Time», andranno a letto più sereni se li si convince che difendendo i loro privilegi agiscono per il bene di tutti.
Insomma, gli Stati Uniti d'America ripudiano il razzismo, ma non quando si manifesta educatamente sulle colonne di una rivista rispettabile. Negli Stati Uniti un presidente è stato costretto a dimettersi per aver mentito alla stampa, ma gli organi di stampa possono mentire, purché le loro bugie siano protette da una patina di scientificità. Nel suo bel libro La macchia della razza. Storie di ordinaria discriminazione (Elèuthera, 2013) Marco Aime scrive che il razzismo sta cambiando; tramontato quello basato sul colore della pelle, ne sta nascendo uno nuovo, nuove forme di pregiudizio e discriminazione sociale, fondati su presunte inconciliabili differenze fra culture. Temo che sia anche peggio di così. Anche nell'America di oggi, il razzismo classico, ci annuncia Nicholas Wade, gode di ottima salute e dispone ancora di eccellenti tribune.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi