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Questo articolo è stato pubblicato il 11 luglio 2014 alle ore 08:40.
L'ultima modifica è del 11 luglio 2014 alle ore 08:41.

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Una scena tratta dal film "Mai così vicini"Una scena tratta dal film "Mai così vicini"

In attesa del blockbuster dell'estate, Transformers 4, in arrivo la prossima settimana, l'antipasto sembra non essere male. Nulla di indimenticabile in sala, ma un poker di film decisamente interessanti. Giusto cominciare con La madre dell'esordiente Angelo Maresca. Un'opera coraggiosa fin dal soggetto, che ci pone di fronte alle tentazioni che un uomo di Chiesa si trova ad affrontare nel mondo reale.

Un ottimo ritorno per Stefano Dionisi, qui prete alle prese con le esigenze di un corpo che lotta contro la fede in Dio e un complicatissimo rapporto con la madre (Carmen Maura, inquietante e come sempre bravissima). Dio e mamma sono il centro della sua vita, l'amore che prova per entrambi è fortissimo, insopportabile, e così le sue viscere, i suoi desideri, la sua umanità si ribellano, cercando nella splendida, elegante, sensuale Laura Baldi un rifugio, un ristoro alle sue repressioni e depressioni. Non è facile raccontare un prete che tradisce i suoi voti, soprattutto nell'Italia bacchettona di oggi. Maresca sa farlo utilizzando al meglio la bella e originale scenografia di Massimiliano Nocente e la fotografia di Vittorio Omodei Zorini, adattando a delle immagini quasi pittoriche i momenti più fisici, erotici e allo stesso tempo spirituali. La plasticità delle scene di sesso, in cui Baldi e Dionisi vengono ripresi con scelte visive audaci, in tutti i sensi, ha la stessa potenza dell'angosciante rapporto tra madre e figlio, dei loro dialoghi altrettanto intimi e "sconvolgenti". Maresca, purtroppo, non sa dare continuità a queste intuizioni, a questi momenti alti, e spesso si finisce per uscire fuori dal film. Ma il suo talento è evidente e si farà.

Dall'altra parte dell'oceano arriva, nella stessa settimana, un'altra interessante riflessione sulla religione e la realtà. Diametralmente opposto per toni e argomenti, Il Paradiso per davvero: un bambino dichiara al padre che durante l'operazione d'urgenza che, facendogli sfiorare la morte, gli ha restituito la vita, ha incontrato gli Angeli, ha visto Gesù a cavallo, ha visto l'Eden. E il suo amato genitore non è un uomo qualsiasi, è un pastore. Non sa se credere a quel bimbo, se condividere con la sua comunità il bel segreto, se lasciarsi andare alla fede nel figlio e nel Dio di cui parla ogni settimana. Lui è Greg Kinnear – come sempre si conferma uno dei migliori attori in attività – e coltiva un sano senso critico, una capacità di provare dubbi che lo avvicina, in fondo, al Dionisi de La madre. Ma se quest'ultimo è un film scuro, doloroso, questa è un'opera sentimentale, ingenua, dolce. Se quello è un film fisico, questo ha in sé un qualcosa di fiabesco. E ti lascia con una bella sensazione, anche se soffre di una sceneggiatura gracilissima, di una drammaturgia anche più esile e di pochi eventi forti durante la storia. Che peraltro, è vera. Nel senso, almeno, che pastore e figlio esistono davvero. Poi sta a voi, a noi credere loro. E in loro.

Più facile e "terreno" Mai così vicini. Il dilemma di Oren, il protagonista, infatti, è solo quello di essere stato il miglior agente immobiliare della sua contea, impossibilitato ora a vendere la casa in cui ha amato la moglie ed è rimasto vedovo, a causa della crisi. E' insopportabile, ma se pensiamo che lo sceneggiatore è Marc Andrus (quello del bellissimo Qualcosa è cambiato, con Jack Nicholson), sappiamo già che arriverà qualcosa a combattere la sua rabbia contro tutto e tutti, la sua misantropia apparentemente irrimediabile. Rob Reiner gioca sul sicuro, sfruttando il genere efficacissimo della commedia sentimentale geriatrica, ha dalla sua Michael Douglas e Diane Keaton (ma anche ottimi comprimari) e dialoghi di certa riuscita. Non siamo dalle parti del capolavoro, ma in sala ci si può andare in famiglia (nonni compresi) e divertirsi il giusto.

Film generazionale, infine, è anche L'estate sta finendo. Ma qui si torna indietro, all'università, precisamente in un week-end che unisce della bella e agrodolce gioventù romana a Sabaudia, di nascosto ai genitori, in una villa di famiglia del più ricco del gruppo in cui fingere di prepararsi per il prossimo esame. Stefano Tummolini, come in Un altro pianeta, usa l'unità di luogo e un tempo limitato per far esplodere, con grazia, contraddizioni e ipocrisie. Qui, poi, forza il tutto con un dramma che spezza l'atmosfera goliardica per far emergere le spaccature (su tutte il classismo reciproco tra i ragazzi, forse la loro vera malattia sociale). Gli attori sono bravi (da Miglio Risi a Torrresi, da Tantillo a Rapti Gomez), il regista a volte si lascia andare a una concezione un po' banale e piatta della generazione che ha davanti, costringendola a dialoghi magari veri – il dopocena in questo senso è illuminante -, ma che forse dovevano avere un ritmo e un'arguzia diversa. Ma è proprio quel ballare sui luoghi comuni di una gioventù bruciata (o meglio abbrustolita e intorpidita dai soldi e da falsi sogni) che rappresenta forza e fragilità di un film intelligente e, comunque, da vedere. Il sospetto, però, è che Tummolini debba fare un salto di qualità, che coralità e sguardo d'assieme su comunità da indagare non bastino più.

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