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Questo articolo è stato pubblicato il 13 luglio 2014 alle ore 08:15.
Quando Jacopo Ligozzi fu chiamato a Firenze dal granduca Francesco de' Medici era un pittore già formato. Nato a Verona nel 1548, apparteneva a una famiglia di ricamatori d'origine milanese. Riflessi di tale atavica professione si riscontrano nel Ritratto che Jacopo fece a Virginia de' Medici, la cui impronta manieristica spicca nella dovizia dei particolari ornamentali, dall'abito ai gioielli che lo tempestano, alla foggia dei capelli – una cascata di riccioli biondi lumeggiati d'oro –, all'espressione un po' assorta del volto visto di fronte, da bambola di corte. Jacopo stesso, artista versatile come pochi se ne conoscono nella seconda metà del secolo XVI, aveva prodotto disegni per gioielli e suppellettili, abiti e apparati, oggetti di vetro, studiati nelle loro luminescenze, arredi e carrozze, commessi marmorei, come lo stupefacente piano di tavolo, realizzato dalla manifattura granducale, con una veduta tersa e festosa del porto di Livorno, dove nel braccio di mare antistante la città, sfilano a fior d'acqua navigli rossi e svettano candidi fari, che fanno contrasto con il lapislazzuli della distesa marina, il tutto incorniciato da una fascia variegata di agata.
Tuttavia la specialità del Ligozzi "universalissimo" fu la pittura, campo nel quale egli sfodera la sua capacità di passare dalle lussureggianti tavole naturalistiche, destinate quasi in esclusiva ai Medici (a Firenze se ne conservano quasi duecento), a quella pubblica, disseminata nelle chiese. L'ampio catalogo delle opere di Ligozzi, valorizzato dalla bella mostra allestita nella Galleria Palatina e nel Gabinetto dei disegni degli Uffizi, e curata da A. Cecchi, L. Conigliello e M. Faietti, vanta una continuità più di spirito che di stile, e il visitatore di questa rassegna è pressoché indotto a coglierla, facendosi largo nell'apparente estraneità delle tavole naturalistiche – erbe, fiori, pesci, uccelli – dai quadri d'altare, nei quali il pittore parrebbe quasi costretto a ottemperare all'impegno di non disperdersi in lenticolari minuzie, che potrebbero distrarre l'osservatore dal centro concettuale e devoto, mentre le minuzie sono una componente irrinunciabile dei "ritratti" delle cose naturali. Per superare l'impressione di discontinuità, lo spettatore è aiutato da una grande tela, che originariamente si trovava nel Casino mediceo, ricomparsa da non molto: l'Allegoria della Virtù, con la Virtù soccorsa da Amore e assediata dall'Ignoranza e dall'Opinione, una delle quali ha un aspetto tribale, che si riallaccia alla cultura esotica, propria delle collezioni di mirabilia e naturalia che andavano diffondendosi, a livello alto e dotto, nei decenni a cavallo fra Cinque e Seicento, anche a Firenze presso i Medici e a Bologna con Ulisse Aldrovandi, il più colto degli estimatori di Ligozzi. In questa sofisticata Allegoria, emblema della multiforme cultura di Francesco I de' Medici, le tre donne si agitano contro una parete rocciosa da cui però spuntano fiori e arboscelli, imparentati con quelli dei superbi fogli di soggetto naturalistico, sì che il dipinto è testimone di come la pittura allegorica e retorica di Jacopo Ligozzi non sia slegata da quella di soggetto scientifico. Arduo ma non impossibile risulta riconoscere l'identità tra l'autore dei naturalia e quello dei contrastati quadri d'altare. Si veda il Martirio di Santa Dorotea, arcaizzante nell'impianto e nelle pose dei protagonisti, ripresi da modelli di Fra' Bartolomeo, e, per il colore vivido e smaltato, da esempi veneti. Oppure il bel Martirio dei quattro Santi Coronati, in cui Ligozzi pare concedersi una escursione realistica nei ragazzini che assistono rattristati alla mattanza dei quattro martiri.
Da artista poliedrico, era riuscito a entrare nel mondo sfaccettato della corte medicea, soddisfacendo tanto i gusti più preziosi e capziosi dei granduchi, quanto le inclinazioni devote delle loro consorti. Sintesi di tali sensibilità diverse sono proprio le tavole naturalistiche, la cui tecnica esecutiva presenta ancor oggi – incredibile – enigmi irrisolti.
Non usava colori a tempera, che non sarebbero stati in grado di raggiungere uguali effetti smaltati e miniaturistici; la critica è invece propensa a ritenere che Ligozzi abbia utilizzato pigmenti policromi di materia organica e inorganica, applicati su carte che ancora stupiscono per lo stato immacolato di conservazione. A differenza dei microcosmi incantati, ma sostanzialmente irreali di Jan Bruegel dei Velluti, gli uccelli, i pesci, gli animali, i fiori e le piante di Ligozzi, pur rispondendo a una osservazione che possiamo definire scientifica della realtà – non dimentichiamo il rapporto con il succitato Aldrovandi –, affidano il loro fascino assolutamente singolare, a un insieme costituito di verità fisica e di metafisica sospensione. Lo spiega benissimo il saggio di Marzia Faietti nel catalogo della mostra. La poetica di Ligozzi non si limita a contraffare, o meglio a ritrarre la natura, bensì la esalta alla luce di uno sguardo che è più che legittimo dire religioso. Era religiosissimo anche nella vita, con moglie, sette figli, per un totale di dodici bocche da sfamare.
Nella sintesi di "arte e scienza, natura e religione", nella visione delle cose celebrate quali elementi del creato, anche la sua bravura tecnica si accresce di un valore aggiunto. Ed è giustissimo sottolineare che al cospetto delle tavole che illustrano varie specie ittiche, i nostri occhi sono stimolati a cogliere in quei magnifici pesci i «caratteri fisionomici legati ai temperamenti degli esseri umani» (Faietti), resi con attenzione garbatamente ironica e divertita. Proviamo allora a interpretare quelle espressioni umanizzate, che sfilano nella galleria dei ritratti ittici ligozziani. Il Pago è tronfio; l'Orata, irata; la Cernia, golosa; il Pesce prete, determinato; il Dentice, infido; il Fragolino, sospettoso.