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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2014 alle ore 08:15.

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Il Magno Palazzo incastonato del castello del Buonconsiglio a Trento è molto più di una pur spettacolare cornice della bella mostra dedicata a Dosso Dossi. È sede irrinunciabile ad affinare la comprensione della cultura di questo pittore, chiarita grazie ai rapporti figurativi e alle corrispondenze fra la decorazione a fresco di taluni ambienti e i dipinti temporaneamente adunati. La mostra, curata da Vincenzo Farinella, rientra nella collana denominata la «Città degli Uffizi», sorta dalla premura di esportare un'immagine del museo fiorentino, oltre quella consueta di «luogo deputato alla migliore conservazione delle opere d'arte» (Natali). In tale assunto Dosso Dossi, e suo fratello Battista, fanno ritorno nel palazzo del principe-vescovo Bernardo Cles, prelato di larghe vedute e fedele ai dettami alla Chiesa, nel suo opporsi, senza sotterranee connivenze, all'eresia luterana. Che il vescovo fosse dotato di gusti e sensibilità propri di un principe rinascimentale, lo testimoniano tanto gli affreschi dei Dossi, che le imprese pittoriche concomitanti, compiute da Romanino, negli stessi anni 1531-32. A costui si devono le decorazioni della loggia, che impongono un confronto irrinunciabile, vista la prossimità, con quelle dossesche. Le differenze sono percepibili facilmente: da un lato la concezione più concretamente realistica del lombardo Romanino, dall'altro quella incantata e sentimentale di Dosso, veneziano di formazione, sotto l'influsso di Giorgione e Tiziano.
Nel Magno Palazzo oggi è esposto un gran numero di quadri, in un percorso cronologico che si sviluppa nelle stanze abbellite da affreschi in diseguale stato di conservazione. Gli ambienti vantano nomi attraenti: Camera del Camin nero, Stua de la Famea, Camera degli Scarlatti, Chamarin drio lo toron (da pronunciarsi con accentazione trentina). Il dialogo fra gli affreschi e i dipinti obbliga il visitatore a spostare di continuo lo sguardo dal basso all'alto e viceversa; un moto quasi rituale, teso al recupero di quella unitas che – come sottolinea Farinella nel bel saggio del catalogo – era alla radice delle aspirazione culturali di Bernardo Cles. La stessa unitas ci sospinge a non stupirci della mistura di sacro e profano, propria delle sfaccettate ambizioni vescovili, e manifesta nella mescolanza di affreschi e manufatti di soggetto e stile diversi: arcaizzanti gli arazzi con episodi della Passione di Cristo, opera di Pieter van Aelst (ora al museo Diocesano), moderne le pitture murali di Romanino e Dosso. Ne sortisce un effetto fin dall'origine unitario, concepito nella mente del presule trentino, quale ingrediente indispensabile a fare del Magno Palazzo una specie di autoritratto monumentale.
Il 1530 era un anno avanzato nella carriera di Dosso Dossi giunto all'apice. Nel 1514 lo vediamo stabilmente attivo a Ferrara, al servizio di Alfonso I d'Este. Poi a Roma, dove era entrato in stretto contatto con l'opera di Michelangelo e Raffaello, sì da non poter non restare immune da una suggestione classicista. Tuttavia l'impronta del classicismo dossesco non si intona all'armonia. In lui, fermenta un umore eccentrico, sostanzialmente profano, che prende linfa da una naturale inclinazione per i temi mitologici, allegorici, sensuali e pruriginosi. Quadri allegorici forniscono ampia materia a letture esposte alle controversie critiche, che abbondano anche in sede attributiva. Al di là dei dispareri, Dosso rimane un pittore fra i più intriganti del primo Cinquecento italiano, come molte delle opere presenti a Trento dichiarano. A cominciare dalla serie dei «quadri di pittura» che ornavano anticamente il soffitto della camera da letto di Alfonso d'Este, nella dimora di via Coperta a Ferrara. Queste tavole erano originariamente in ovato (ovali), ma nel Seicento erano già ridotte a rombi. Percepiamo nelle allegorie ferraresi un che di inquieto, data la sottile interpretazione psicologica delle espressioni che s'imprimono sui volti dell'Ebbrezza, della Zuffa, della Seduzione, dell'Abbraccio, della Musica e della Conversazione.
Di altri dipinti di Dosso non si può parlare senza addentrarsi nella interpretazione di iconografie spesso di derivazione letteraria. Si veda il capolavoro di Cracovia con Giove pittore di farfalle, Mercurio e la Virtù, e l'Allegoria mitologica, riconosciuta nella Storia di Callisto o Trasformazione di Siringa, o Venere scopre la bellezza di Psiche o Semele: una sequenza di ipotesi dotte, utili a farci capire quale fosse il mondo sofisticato di Dosso. A dispetto della complessità del soggetto, nello sfondo ci è dato di ammirare la bellezza di un paesaggio iridescente, frutto di influenze nordiche assimilate a Venezia. Da ultimo: nell'Allegoria di Ercole degli Uffizi, il personaggio di fondo, affrontato al buffone di corte Gonnella, non mi consta si sappia chi sia. Il suo profilo, così bene rilevato, deriva puntualmente dal ritratto di Ercole I d'Este che compare al diritto di una moneta d'argento coniata a Ferrara, il Testone con al rovescio il monumento equestre del duca, che non fu mai realizzato.
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Dosso Dossi. Rinascimenti eccentrici al Castello del Buonconsiglio, Trento, Castello del Buonconsiglio,
fino al 2 novembre.
Catalogo Silvana Editoriale

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