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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2014 alle ore 08:15.

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Già grondava commozione, la nuova Butterfly raccontata da Pippo Delbono per il San Carlo di Napoli: perché scavata in ogni parola, stanata nelle pieghe della drammaturgia, riportata agli ingredienti di base della storia, quella che è così cruda che non viene mai voglia di lasciarla affiorare. Tanto la conosciamo, no? Una piccola geisha, 15 anni, lo spavaldo tenente americano, le finte nozze, un silenzio di tre anni. Dopo di che il ritorno di lui, con la moglie vera, americana, il bambino portato via, il suicidio di lei. Grondava commozione, perché spiegata piano piano, senza bisogno di effetti o folklore. Né sovraccaricata, né edulcorata. Ma a trasformarla in un dolente saluto di addio - forse fatalmente il più bello che si potesse immaginare - è stata la notizia, arrivata durante il primo intervallo dell'opera, che Lorin Maazel ci aveva lasciati.
Così se il microfono lo aveva preso, secondo copione, il regista, all'inizio, per introdurre con taglio del tutto personale e insolito lo spettacolo, dopo il primo atto lo riprendeva il direttore, Nicola Luisotti, per annunciare il grave lutto per il mondo della musica. A una sala traboccante, che immediatamente si alzava in piedi per un applauso che sembrava interminabile. Seguito dal silenzio. E poi dalle note più giuste, per dire addio a un grandissimo interprete pucciniano: quelle del secondo atto di Madama Butterfly, cinto da un Coro a bocca chiusa, mai sentito tanto scandito su un passo di morte e di luttuosi rintocchi.
Il tutto molto ben concertato da Luisotti, a suo agio in una partitura dominata con esperienza e bravura (come provava la ripresa - al volo - di un errore abbastanza vistoso del baritono, che nel canto di conversazione di Puccini avrebbe mandato a gambe all'aria una bacchetta meno pronta e lucida). Pieno di colore sinfonico. Magari talora un po' troppo sgargiante nei volumi in rapporto al palcoscenico, e sempre col difetto di una scansione troppo suddivisa. Ma comunque di buon risultato. Tra l'altro costruito con solo tre giorni di prove, dal momento che il titolare, Tito Ceccherini, era stato costretto a ritirarsi.
Ma la vera marcia in più di questa Butterfly si giocava in palcoscenico. Anzi, prima in platea, dove sussurrando, chiedendo dunque silenzio e con passi felpati, Pippo Delbono leggeva una lettera dedicatoria, a un'amica attrice, suicida per amore. E poi ancora i famosi versi di Questo amore di Jacques Prévert. Extra-Puccini, eppure perfettamente centrati. Extra, come la sua presenza in scena, durante lo svolgimento dell'opera. In momenti mirati: o in difesa di lei, o del bambino. Quasi a raccogliere un moto istintivo, che chiunque tra il pubblico avrebbe voluto fare. Era Delbono a ornare l'impiantito di fiori rossi, distribuiti a terra, come da libretto. Un po' servo di scena, un po' doppio del piccolo e bravissimo Giorgio Mastantuomo, quattro anni, indimenticabile nella risalita finale verso il fondale, mano nella mano col fragile Bobò, l'attore immancabile in ogni spettacolo di Delbono, che ogni volta giustamente non si stanca di ricordarne il passato: per anni, sordo e muto, abbandonato nel manicomio di Aversa.
Salvato. E qui, ancora più che in nella precedente Cavalleria rusticana di Mascagni, centrato per alterità, dolore e fragilità spartiti con la piccola Butterfly. Le due produzioni si alternano in dittico prezioso, come un dono di fine stagione al San Carlo. Con un progetto di segno culturale alto. Ed è proprio il linguaggio personale di Delbono a gemellare i due titoli, portando nuova linfa a due classici del repertorio. Riletti sotto il segno delle emozioni primarie, selezionate, proiettate con forza.
E naturalmente, come sempre, quando i cantanti vengono resi consapevoli del senso profondo di ciascun ruolo, cantano immensamente meglio. Supportati dal fatto che ora, a Napoli, le squadre in cartellone sono scelte e soprattutto curate con passione e competenza. Le voci non sono sole. Vincenzo Costanzo, ad esempio: è un pastoso, trascinante Pinkerton. Modello Caruso, ha canto a fior di labbra, timbrato, naturale come la scolpitura della parola. Ma soprattutto è Pinkerton: infame e guascone, carnefice e vittima. Perché Delbono lo veste da Corto Maltese, con la complicità dei costumi di Giusi Giustino, cappello da marinaio sempre calcato in testa e la maglia bianca sotto il cappotto blu, e gli tira fuori l'anima dell'impacciato e crudele. A 23 anni, una corsa da vigliacco, tagliando di sbieco il palcoscenico, la fai solo se qualcuno ti ha spiegato che quel gesto sintetizza una storia. Sharpless è Marco Caria, baritono importante, come autorevole e piena è la Suzuki di Anna Pennisi. Caratterizzato, nello sgambettare e nell'insinuare, è il subdolo Goro di Andrea Giovannini. Ma il piccolo miracolo, di una regia tanto "di pancia" ma calcolatissima, riesce con Raffaella Angeletti, una Butterfly che alla prima è totalmente senza voce e che pure riesce a restare il perno emotivo dell'opera: dura, matura, tragica, chiusa in un mondo irraggiungibile. Ha i capelli tagliati, nel terzo atto: Il gesto, in fondo piccolo, ma mai visto, dice tutto il toccante, inutile sacrificio.
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Madama Butterfly di Puccini;
direttore Nicola Luisotti, regia di Pippo Delbono; Napoli, Teatro di San Carlo, fino al 26 luglio

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