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Questo articolo è stato pubblicato il 23 luglio 2014 alle ore 13:35.

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In un pomeriggio di pioggia di cento anni fa, il 7 febbraio 1914, nello spogliatoio della Keystone, a Los Angeles, nasce una delle maschere più grandi del 900, insieme con quelle di Buster Keaton e Totò. Pressato da Mack Sennett, che vuole un nuovo omino buffo per le sue comiche, il venticinquenne Charles Spencer Chaplin – così narra la leggenda – si mette i pantaloni di Fatty Arbuckle (130 chili di peso), la giacchetta di Charles Avery, le scarpacce di Ford Sterling (le calza invertite, per non perderle), la bombetta del suocero di Fatty e i baffi destinati a Mack Swain, tagliati però alla misura di uno spazzolino da denti.

La corsa di Charlot attraverso l'immaginario inizia così, con una maschera messa insieme con pezzi di altre maschere, come se non fosse sufficiente a se stessa. Chi è dunque Charlot? Secondo François Truffaut, è l'uomo più povero e oscuro del mondo, che per mangiare ruberebbe ai deboli fra i deboli. Lo dimostra una sequenza di Il circo, (1925-1927). In braccio al padre, un bimbo tiene in mano un dolce. Affamato, Charlot gli si avvicina in silenzio, e con un morso gliene divora metà. Ridendo, la piccola vittima gli offre il resto. La cattiveria è evidente. Ma c'è mai comicità senza cattiveria?

Charlot è cattivo, dunque. Già nei primi film è un simulatore astuto e malizioso, sostiene André Bazin. Non ha istinto paterno. Quando è certo che non glieli possano restituire, prende a calci i suoi avversari. «Credere Charlot fondamentalmente buono sarebbe un errore», avverte. Ed è Chaplin stesso che spinge il pubblico all'errore. Film dopo film, il suo personaggio diventa sempre più "morale" e "simpatico", fino a sembrare la quintessenza della bontà.

Senza curarsi di comicità e cattiveria, Bertolt Brecht sostiene invece che Charlot sia un sottoproletario, o anche un piccolo borghese. Infatti, aggiunge acido, quando Chaplin diventa milionario, un po' alla volta il vagabondo miserabile scompare. Non lontana è l'opinione di György Lukács, pedante (e geniale) sistematizzatore. Per lui, Charlot avrebbe reso «simbolicamente concreto un atteggiamento tipico dell'uomo della folla, di fronte al capitalismo odierno».

Più sottile sembra l'ipotesi di Dolf Sternberger, allievo intellettualmente molto autonomo di Karl Jaspers e Martin Heidegger. Quando Hannah Arendt e io vedemmo Charlot per la prima volta, ricorda, «tra le risa e le lacrime individuammo in quel personaggio buffo anche un modello filosofico, etico». Il modello è lo stesso del principe Myskin dell'«Idiota», aggiunge. Non c'è da stupirsi dell'accostamento a Fëdor Dostoevskij del poeta di un'arte plebea come il cinema. Usando il mezzo espressivo più grande del nostro tempo, sostiene Sternberger, Chaplin interpreta l'esistere, e lo fa allo stesso livello che fu di William Shakespeare e di Molière.

È una radicale «mancanza di sé», l'esistere dell'omino con la bombetta. Quel che gli manca è il senso chiuso dell'identità, la saldezza di un io definito. Nella sua maschera «il sistema dei personaggi è infranto». Charlot non vive che di relazioni, perduto nella situazione in cui il caso lo immerge, spinto ad assumere identità precarie e transitorie (qui viene in mente Tempi moderni, del 1936, in particolare lo sciopero durante il quale Charlot si trova a essere un involontario capopopolo). La sua maschera, dunque, è un continuo infilarsi in personaggi, anzi in larve di personaggi, che ogni volta esplodono nel confronto con la realtà. In ciò, nel contrasto di un io che non c'è con un mondo colmo di io definiti e forti – argomenta Sternberger – vive la maschera di Charlot, quasi allo stesso modo del principe Myskin.

Entrambi, insieme, si differenziano da Don Chisciotte, che al mondo oppone un io saldissimo, creato prima d'ogni esperienza, e conservato nonostante ogni esperienza. Alle smentite della realtà, il personaggio di Miguel de Cervantes reagisce non modificandosi, ma elaborando interpretazioni fantastiche del mondo. È naturale che la sua fine sia la follia, la disintegrazione di un io troppo rigidamente strutturato per accettare la vita, e per resisterle davvero.

E la fine del personaggio Charlot? Proprio perché non ha un io, Charlot non può avere una fine. Come nell'ultima sequenza di Il circo (1928), semplicemente si perde all'orizzonte, verso altre situazioni, guidato dal caso a mimetizzarsi, ad assumere identità larve sempre mutevoli, persino fra loro opposte. Si pensi a Monsieur Verdoux. Nel protagonista di quel film del 1946-47, ci suggerisce Bazin, sembrano capovolti tutti i tratti di Charlot. Il vestito approssimativo del vagabondo diventa l'abito inappuntabile del borghese, il suo disadattamento sociale diventa iperadattamento, la sua bontà di copertura diventa cattiveria aperta, senza limiti. Poi però, quando Verdoux sta per essere giustiziato, quello che si avvia alla ghigliottina è un piccolo uomo in maniche di camicia, che cammina ondeggiando, insufficiente a se stesso come la maschera nata in un pomeriggio piovoso del 1914.

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