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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 13:50.

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Ci sono anniversari emblematici. Tramortita dallo scandalo del Mose, Venezia vive oggi la sua stagione più cupa, affossata da una classe dirigente fallimentare. Eppure, ci fu un "veneziano di terraferma", di cui tutte le persone perbene dovrebbero serbare un grato ricordo. Si tratta del trevigiano Bruno Visentini, che il prossimo 1° agosto avrebbe compiuto cent'anni. Era un signore colto e mai accomodante, sempre in prima fila nella tutela dei beni culturali e ambientali. Sapeva stare a tavola, non esibiva capigliature impiastricciate, preferiva Wagner alle discoteche e aveva avvertito con largo anticipo la deriva del Consorzio Venezia Nuova. Ammiratore di Walter Rathenau, era un "gran borghese" laicissimo, mal tollerato in una regione di sanfedisti, secessionisti e anarcoidi alla Toni Negri.
Riavvolgere il nastro della sua vita significa intravvedere un raggio di luce nella non irresistibile parabola della sua classe sociale, incapace di esercitare un'autentica egemonia liberal-democratica. «Se mai c'era stato un partito "borghese", questo fu il movimento fascista», ha scritto Alberto M. Banti nella più accreditata Storia della borghesia italiana (Donzelli), che si conclude, non a caso, con l'avvento di Mussolini: l'unico in grado di mobilitare i proprietari, i professionisti e gli industriali, ma sotto le insegne del fascio littorio.
Visentini era di tutt'altra pasta. Di famiglia antifascista, fu tra i fondatori nel '42 del Partito d'Azione veneto. Esperto societario, si sforzò per tutta la vita di risanare la "baraonda tributaria", in nome dell'equità. Consulente d'impresa, riaffermò sempre il nesso strettissimo fra ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, per evitare di ritornare a essere «un popolo di cuochi, parrucchieri, sarti e calzolai». Nel paese dei condoni, dei monopoli e dell'economia sommersa, brillò come un cittadino europeo nato per caso in Italia.
Gli album della Prima Repubblica ci restituiscono un Visentini colto nella sua piena maturità, esponente di spicco del Partito Repubblicano accanto a Ugo La Malfa e più volte ministro negli anni 70 e 80 (Finanze e Bilancio), autore di incisive quanto avversate misure fiscali. Un distinto padre della Patria, mai sfiorato dall'ombra di Tangentopoli, a differenza del giovane segretario del suo stesso partito. Ma quella fu soltanto la terza e ultima delle "vite" di Visentini.
La "prima vita" coincide con gli anni febbrili degli studi universitari patavini, della cospirazione antifascista e della Consulta Nazionale (l'organo che supplì al parlamento sino alle elezioni del 2 giugno '46), senza dimenticare la prigionia a Regina Coeli, nel maggio-luglio '43. La sua avventura azionista è racchiusa nel libretto Due anni di politica italiana (1943-1945), uscito nell'estate del '45 e ora ristampato da Aragno. Un testo battagliero, dedicato alla memoria dell'amico socialista Eugenio Colorni e incentrato sulla pregiudiziale repubblicana, cavallo di battaglia vincente del PdA. Dopo traguardi così ambiziosi, coronati dall'effimera presidenza Parri, tanto più bruciante sarà la delusione, nell'Italia di Peppone e Don Camillo. Esaurita una breve esperienza come sottosegretario alle Finanze nel primo governo De Gasperi (dicembre 1945-luglio 1946), Visentini lascerà il "Palazzo", per ritornarvi soltanto nel '72. «Non fummo noi ad abbandonare la politica» – ricorderà nel 1986 a un convegno sul romanzo I piccoli maestri di Luigi Meneghello, altro compagno di gioventù, insieme a Francesco Cingano e Antonio Pesenti – «fu la politica che abbandonò noi e noi ritornammo isolati: in un mondo ben diverso da quello del fascismo, ma isolati. Il che poi ci portò alle nostre professioni, sempre con un po' di rimpianto».
La sua "seconda vita" è dunque quella del grand commis (vicepresidente Iri nel 1950-72), del manager (presidente Olivetti dal '64 al '74, e poi di nuovo nel 1977-83) e dell'avvocato (lo studio in Piazza di Spagna veniva però immancabilmente chiuso a ogni incarico di governo). Tanta carne al fuoco, per i futuri biografi, soprattutto riguardo all'Olivetti, da lui gestita nel cruciale passaggio dalla meccanica al l'elettronica, con risultati ancora oggi dibattuti (per non parlare dell'ingeneroso e grottesco ritratto tracciato da Paolo Volponi nel romanzo Le mosche del capitale, 1989). Il bagaglio professionale rappresenterà comunque il cuore pulsante del suo mestiere di politico. A differenza di quanto si è spesso detto, Visentini non vagheggiò affatto un "governo dei tecnici". Semplicemente, reputava la competenza, la coerenza e l'autonomia dal correntismo partitocratico come i requisiti fondamentali per un degno amministratore pubblico. La buona politica, secondo lui, non avrebbe dovuto prescindere dalla tecnica, senza però esserne soggiogata, pena la sua involuzione in tecnocrazia.
Merita un cenno anche la "solitudine dell'antifascista". Non si rassegnò mai alla narrazione buonista del regime di Mussolini, sempre più in voga nel ventre del paese. Una vulgata zuccherosa che, per usare le parole di Emilio Gentile, ha «defascistizzato il fascismo», negandone il carattere autoritario e svuotandolo dei suoi contenuti ideologici. Visentini invece nel '94, pur di contrastare il Berlusconi "sdoganatore" del Msi, non esitò a rompere definitivamente con il tentennante Pri di La Malfa jr per essere eletto senatore nello schieramento progressista capitanato da Achille Occhetto, con il quale in fondo aveva ben poco in comune. Ma era in lui ancora vivo il ricordo dello studio del padre avvocato devastato dagli squadristi. Un trauma che forse lo spingerà a perpetuare nella sua villa di Vascon la preziosa raccolta paterna di testi trevigiani (bibliofilia documentata da un bel catalogo, uscito postumo grazie alle cure della figlia Olga).

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