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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 13:50.
Alzi la mano chi non ha creduto che l'era Internet avrebbe avuto, nella vita come nell'arte, zero confini e un potere meno centralizzato. Non è stato così: sono arrivati i giganti con un manipolo di dirigenti che governano la rete nel mondo con strategie di marketing spregiudicate: per capire come condizionare meglio il comportamento dei suoi utenti, Google ha sperimentato 41 sfumature di blu. Quella beata utopia oggi è erosa dal modo in cui ci cambiano Facebook, YouTube, Tumblr eccetera. Non a caso le ultime mostre d'arte significative, da «dOCUMENTA» (13) alla Biennale veneziana del 2013, hanno ignorato la presenza del digitale e della rete. Ci sono stati anni in cui si è parlato molto di net.art, ma in effetti pochissimi degli artisti coinvolti hanno saputo raggiungere un pubblico vasto. Ne sono prova le riflessioni contenute nel libro curato da Omar Kholeif You are Here - Art after the Internet. Diviso nelle tre sezioni di Saggi, Provocazioni e Progetti, non propone una visione unica ma è una buona antologia di prospettive in un campo in cui non si scrive molto.
L'introduzione già ci avverte di alcuni effetti paradossali di quanto Internet ha portato: una retromania che include il gusto del vintage e del fatto a mano, ma anche un ripiegamento su di sé simboleggiato dagli autoscatti selfie e dalle frasi da diario, mettendo on line l'io che vorremmo essere.
Resta il fatto che saltabecchiamo di continuo tra cellulare, tablet e computer e ormai siamo tutti digitali, nativi e non. Qualsiasi espressione umana è toccata dall'always on, scrive Gene McHughes: se scrivo U anziché You in un messaggino, sto dicendo che la relazione tra me e il destinatario non è solo formale; un power point struttura il pensiero almeno quanto la forma-pagina del libro; riassumiamo uno stato d'animo in emoticon anche se la loro interpretazione è ambigua.
Persino se dipingo un acquerello, un retropensiero sa che sto tradendo quei new media che abitano ormai il mio inconscio. Per questo Michael Connor scrive che «non ha senso per gli artisti cercare di accordarsi con la "cultura internet", perché la "cultura internet" è ora più semplicemente "la cultura"».
Puo avere senso, quindi parlare di sensibilità "Post internet", la New Aesthetic coniata da James Bridle: che lo utilizziamo o meno, è questo mezzo che ci ha insegnato a fare un collage mentale tra una schermata e l'altra, a creare il nostro film quotidiano come una compilation di dati, a seguire percorsi in parte indotti dai nostri gusti, in parte dalle nuove multinazionali, altrettanto politiche e certamente più aggressive sui nostri ego di quando si occupavano di petrolio.
Alcuni artisti ce ne parlano direttamente: Ryan Trecartin crea video molto complessi, anche se apparentemente dominati dalla combinazione caotica di frammenti dal web. La sua estetica splatter è quella appunto dei ragazzacci che postano le loro serate esibizioniste, ma è anche quella di mobili che vengono comperati rigorosamente on line e senza averli visti dal vero (tra poco sembra che ci succederà quasi per tutto). Olia Lialina creava negli anni Novanta pagine web piene di link e possibili digressioni, orientate a lasciarci creare una narrazione soggettiva sulla base di possibilità di navigazione oggettive e di suoi suggerimenti tematici. Negli anni duemila ha scelto di diventare una venditrice di opere "net specific", fatte apposta per il cyberspazio, concependo questo suo atto come una performance che unisce i mestieri dell'artista, del curatore e del mercante.
Analizzando questi e altri casi si palesano almeno due motivi per cui il sistema dell'arte non ha accolto facilmente la net.art, ma accoglie invece l'estetica post-Internet. Primo, la riconoscibilità dell'autore: un buon frutto del lavoro on line spesso nasce da un'équipe, cosa che contraddice la legge (mercantile, ma adatta anche al mondo di mostre e musei) per cui un'opera si identifica con una persona fisica e possibilmente anche con la leggenda che questa è in grado di generare. Trecartin ha avuto successo perché è riuscito a non perdere i connotati a farsi accogliere da una galleria di culto come Andrea Rosen, mentre le operazioni (troppo) sperimentali di Olia Lialina l'hanno lasciata nel limbo. Secondo, le opere post-Internet sono spesso anche oggetti materiali e non si identificano per forza in percorsi digitali. Questo significa che tornano a svolgere anche la funzione di totem, di pelouche, di presenze rituali e rassicuranti.
Si conferma quindi ciò che è accaduto con l'arte cinetica o con il video: affinché una tecnologia entri nell'arte, deve superare il momento di massimo sviluppo e porsi come acquisita se non obsoleta: è allora che iniziano a manipolarla anche i poeti, che individuano e descrivono il modo in cui ci ha cambiato. Nel caso di Internet, come è vissuto in Occidente, soprattutto portandoci a un atteggiamento politico passivo, a un'attenzione esasperata verso il gruppo, a tipologie di narrazione frammentate, spesso sentimentali e autobiografiche. Vedremo il resto, siamo solo all'inizio.
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Omar Kholeif (a cura di), You are Here - Art after the Internet, Cornerhouse and Space (www.spacestudios.org.uk), London , pagg. 252, £ 15,95