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Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 08:13.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 13:50.

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Il neoimperialismo russo post-sovietico, al centro della crisi ucraina provocata dall'esibizione di muscoli di Putin e sfociata nell'annessione a Mosca della Crimea, ha riportato in campo una questione cruciale, come il rapporto fra Russia e Europa, che si è affacciata più volte nel corso del tempo, in alcuni momenti salienti. Essa è dovuta al forte impatto, dai mutevoli risvolti, che le peculiari matrici storiche della Russia (religiose, culturali, politiche) hanno esercitato nelle sue relazioni con il resto del Vecchio Continente.
In origine, all'inizio del XV secolo, a conferire una legittimazione insieme nazionale e universale allo Stato moscovita, che valse a dargli anche un'identità politica e ideale del tutto specifica, fu un monaco di Pskov, Filofej, in un'epistola scritta allo zar Vasilij III, padre di Ivan il Terribile, in cui asseriva che, cadute le «due Rome», l'occidentale (romana cristiana) e l'orientale (imperiale bizantina), la Russia era divenuta la «terza Roma», perché rimasta l'unica al mondo a professare, con la Chiesa ortodossa in antitesi a quella cattolica, il «vero cristianesimo» in base al messaggio divino.
Di qui la simbiosi fra Chiesa e Stato, in nome della preservazione della «santa Russia» e della sua suprema missione universale, e la vocazione autocratica che contrassegnò la gestazione dell'impero russo su cui influì, insieme alla cultura religiosa autoreferenziale ereditata dall'impero di Costantinopoli, la cultura statale assolutista della precedente dominazione mongola.
La Russia rimase perciò del tutto estranea tanto all'Umanesimo e al Rinascimento che alle suggestioni della Riforma protestante.
Su questi e i successivi tratti distintivi della Russia nelle sue complesse relazioni con l'Occidente europeo, Vittorio Strada ha tracciato un profilo d'insieme che si raccomanda sia per la lucidità dell'analisi che per un raccordo fra passato e presente denso di riflessioni stimolanti.
Eleggendo a capitale San Pietroburgo, quale «finestra sull'Europa», Pietro il Grande mirò nel primo ventennio del Settecento a introdurre in Russia, in funzione di una modernizzazione imposta dall'alto, alcuni orientamenti della cultura illuminista e razionalistica, a cui fece seguito il tentativo dei suoi successori di mutuare dall'Occidente anche i modelli di sviluppo economico, in coincidenza con l'opera di colonizzazione delle terre al di là degli Urali e in Alaska (quasi allo stesso modo in cui avvenne l'espansione della frontiera nella storia americana). Ma la permanenza di una struttura economica per lo più arretrata e di profonde diseguaglianze sociali fu il preludio dell'eclisse dell'impero zarista, battuto militarmente nel corso della Grande Guerra e infine travolto dalla Rivoluzione bolscevica del 1917.
Nacque così, con l'Urss, un nuovo impero sulla base dell'ideologia internazionalista marxista-leninista e delle sue finalità di palingenesi sociale, per il riscatto e l'unificazione delle classi oppresse al di là dei singoli Stati nazionali.
Comparve, di conseguenza, una nuova linea di separazione-demarcazione della Russia comunista (quale parte culturalmente e territorialmente preponderante dell'Unione sovietica), destinata ad approfondirsi sempre più rispetto al resto dell'Europa dopo la Seconda guerra mondiale, con l'affermazione dell'Urss come grande potenza e l'inclusione nella sua orbita dei Paesi dell'Est europeo.
Tuttavia, nell'ambito di un sistema totalitario che aveva abbracciato l'ateismo e si proclamava sovranazionale, riemersero durante l'emergenza bellica alcuni elementi di continuità (rimasti in letargo o riportati in vita dal regime staliniano per motivi politici strumentali) con la Russia prerivoluzionaria: come il sentimento religioso e quello patriottico. Si spiega perciò la comparsa alla ribalta, dopo il collasso dell'Unione sovietica, di un nazionalismo russo declinato in varie versioni (neo-imperiale o etnico-culturale, autoritario o liberale, xenofobo o multiculturale).
Tra di esse sta andando per la maggiore, come risulta dal saggio di Strada, quella degli eurasisti che, richiamandosi alla configurazione geografica bicontinentale della Russia quale unità spaziale ininterrotta e alla sua tradizione cristiano-ortodossa, addebitano alle aperture culturali verso l'Europa di Pietro il Grande il preludio della «perversione» modernizzatrice che, sfociata poi nella Rivoluzione bolscevica, avrebbe portato la Russia a una fatale deriva dal suo «destino storico». Di qui il loro legame ideale con gli slavofili dell'Ottocento, che consideravano l'Europa slava (con a capo la Russia) superiore, per il suo afflato comunitario e i suoi valori spirituali, all'Europa occidentale razionalista e individualistica. Sta di fatto che i nodi del «problema russo» non si sono ancora sciolti.
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Vittorio Strada, Europe. La Russia come frontiera, Marsilio, pagg. 110, € 14.00

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