Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 27 luglio 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 27 luglio 2014 alle ore 13:50.

My24

Di Ernesto Rossi si parla oggi assai di rado. Se ne parla così poco che si potrebbe dire che una sorta di damnatio memoriae ha colpito le sue idee e le sue battaglie. Una damnatio così efficace, «che nei giorni dei torbidi dell'Ilva, del mercantilismo strisciante, del corporativismo alla carica, nessuno, neanche per uno sfoggio di cultura assai caro alle nostre élites, lo ha recuperato da qualche pagina sparsa di internet o affini»: così scrive Gianmarco Pondrano Altavilla nella Introduzione alla bella antologia da lui curata di articoli di Ernesto Rossi, Breviario di un liberista eretico (per i tipi di Rubbettino).
Fra questi articoli, tutti di alto interesse, uno colpisce in modo particolare: la caustica critica che negli anni Cinquanta Ernesto Rossi rivolse a partiti, sindacati e ad alcune prestigiose personalità della cultura (tra le quali Piero Calamandrei) a proposito del "caso Pignone". Era accaduto questo: la "fabbrica di Firenze", una fonderia, stava per chiudere, perché incapace di reggere il mercato, ma essa venne salvata, a spese dei contribuenti, mercé l'Agip. Tutti felici del salvataggio, tutti contenti, tranne uno: quel rompiscatole di Ernesto Rossi. Il quale rimproverò a Calamandrei, e agli altri che avevano assunto la stessa posizione, di essere incorsi in un grave errore di giudizio. Scriveva Rossi: «Perché quei lavoratori dovrebbero essere così privilegiati, in confronto ai lavoratori che non hanno la fortuna di essere iscritti nei libri paga di una fabbrica? Perché dovrebbero avere permanentemente 1.200 lire al giorno di salario, più 300 lire di contributi alle assicurazioni sociali, senza produrre niente, mentre il disoccupato ha 247 lire e 60 centesimi al giorno, soltanto per un periodo massimo di sei mesi?» Una cosa, soprattutto, diceva Rossi, bisognava (e bisogna) capire: «La mobilità e la libertà del lavoro sono le condizioni necessarie perché tutta la mano d'opera disponibile possa essere impiegata a salari che eguaglino la sua produttività marginale. Se non vengono rispettate queste due condizioni si creano casi di privilegio a spese di tutti coloro che ne vengono esclusi. Quanto più i privilegiati riescono a elevare i loro salari e ad aumentare la sicurezza del loro impiego, e tanto più aggravano la miseria degli altri lavoratori, rendono precaria la loro occupazione e aumentano il numero dei disoccupati».
Ernesto Rossi aveva assorbito profondamente la lezione liberal-liberista di Luigi Einaudi. Certo, molto egli aveva appreso anche dal suo maestro Gaetano Salvemini, e, come il grande storico pugliese, era «abituato a scorticare la verità nei suoi aspetti più crudi, con una prosa veloce, diritta, concisa, che nulla concede alla fumosità delle frasi bombeggianti» (come dice efficacemente Gaetano Pecora nella Prefazione a questo volume). Ma l'ideale di una società la cui economia fosse costituita da tante piccole e medie imprese, in concorrenza fra loro, senza le distorsioni imposte da grandi aziende monopolistiche – questo ideale Ernesto Rossi l'aveva ricevuto da Einaudi. Un ideale che lo scrittore del «Mondo» (il settimanale diretto da Mario Pannunzio) tratteggiava magistralmente con queste parole: «Politica progressiva non può essere la politica della carestia, del privilegio, della cristallizzazione delle posizioni acquisite. Politica progressiva è quella che favorisce l'abbondanza, premiando gli imprenditori più capaci ed eliminando dal mercato le imprese che non riescono a ridurre al minimo i costi e a riadattare la loro produzione alla mutevole domanda dei consumatori. È la politica che combatte tutti i monopoli, capitalistici e operai, per rendere più agevole la strada agli uomini nuovi e alle nuove iniziative».
In fondo, anche l'appoggio che Rossi diede alla battaglia per la pubblicizzazione dell'energia elettrica, realizzata dal centro-sinistra, si inseriva nella sua ispirazione antimonopolistica einaudiana. Benché i dirigenti delle società elettriche private cercassero di negarlo, l'industria elettrica italiana era, diceva Rossi, una industria tipicamente monopolistica: ogni produttore aveva l'esclusività della vendita nella zona che costituiva il suo mercato; chi voleva l'energia elettrica non poteva scegliere fra più venditori, e doveva subire la tariffa stabilita dall'unica società produttrice.
Colpisce, inoltre, in questi articoli di Rossi, l'acuta percezione che egli ebbe di problemi e di difficoltà che erano già acutissimi negli anni Cinquanta e Sessanta, ma che sono acutissimi ancora oggi. La burocrazia della pubblica amministrazione, in primo luogo. «La burocrazia è il cancro che divora l'Italia ... Ogni volta che respiri, aumenta di una unità la sterminata schiera dei gratta-scartoffie ... aumenta un tavolino sul quale si accumulano le pile delle pratiche da "evadere". E corrispondentemente aumentano le marche, i timbri, le legalizzazioni, i permessi, le autorizzazioni, i controlli». ... Rossi vedeva assai bene, e li denunciava con forza, i danni che questa ipertrofia burocratica della pubblica amministrazione arrecava al l'economia. «Dovremmo parlare della elefantiasi dei "gabinetti", che da organi di collaborazione dei ministri sono diventati dei veri superministeri, occupando parecchie decine e anche alcune centinaia di persone, costituendo un pericoloso diaframma fra i ministri e le loro direzioni generali e accrescendo la confusione, con i loro arbitrari interventi nei singoli affari della pubblica amministrazione». Ne discendevano ritardi, rallentamenti, e veri e propri impedimenti per le piccole e medie aziende che volevano fare nuovi investimenti (e quindi acquistare nuovi terreni, costruire nuove unità produttive, eccetera). Un danno enorme per la nostra economia, ieri come oggi.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi