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Questo articolo è stato pubblicato il 03 agosto 2014 alle ore 08:15.

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A noi oggi pare una stranezza, ma ci fu un tempo in cui i dipinti, le sculture e le miniature realizzate tra Medioevo e Umanesimo non interessarono più. Questo tracollo di stima avvenne a partire dal Cinquecento, si protrasse per tutto il Seicento e lambì i primi decenni del Settecento. I polittici medievali su fondo oro – «quadri vecchi» come venivano sprezzantemente definiti – vennero rimossi delle chiese e dalle cappelle e – nella migliore delle ipotesi – finirono accatastati negli ànditi e nelle sacrestie per far posto, sugli altari, ai dipinti «nuovi» della maniera moderna e dell'età barocca. Poco importava che i «quadri vecchi» fossero opere celeberrime di Duccio, di Giotto, di Simone Martini, di Ambrogio e Pietro Lorenzetti. Analogamente, nel buco dell'indifferenza scivolarono anche grandi maestri del Quattrocento italiano, come Beato Angelico, Mantegna, Cosmè Tura o Carlo Crivelli. Ma la cosa più sorprendente è il fatto che questi capolavori, una volta dismessi dalle chiese e dai conventi, non andarono ad alimentare alcuna collezione né pubblica né privata, come invece ci si aspetterebbe. Questa massa di opere galleggiò alla deriva per un secolo e mezzo abbondante, in una sorta di limbo pericoloso e in balia dei capricci del caso, senza che nessuno fosse più in grado di comprenderne l'effettivo valore. D'altro canto, ci basti osservare con attenzione la Galleria di quadri del cardinale Valenti Gonzaga, immortalata da Giovan Pietro Pannini nel 1749, oppure la veduta della Tribuna degli Uffizi dipinta da Joseph Zoffany nel 1778, per renderci conto che nelle grandi collezioni d'arte del Settecento a dominare le pareti erano ancora i capi d'opera di Raffaello, di Correggio, di Tiziano, di Guido Reni, di Federico Barocci e di Rubens. Di fondi oro medievali neppure l'ombra, per non parlare dei grandi maestri del Quattrocento, assenti in blocco.
Questa indifferenza ebbe conseguenze gravi: non solo provocò lo smembramento dei polittici, dei complessi scultorei e delle pagine miniate, ma favorì anche il micidiale assottigliamento del numero dei pezzi destinati a sopravvivere sino a noi.
Oggi la situazione si è completamente ribaltata. I reperti pittorici e scultorei del Medioevo e dell'età umanistica sopravvissuti al maglio dell'indifferenza, godono della massima reputazione e dispongono spesso – nei musei pubblici e nelle gallerie private – di sale e di sezioni apposite nelle quali vengono conservati con ogni precauzione.
Ma quando avvenne l'inversione di rotta che portò alla grande rivalutazione dell'arte medievale e umanistica? E, soprattutto, chi ne furono i responsabili?
A queste due belle domande risponde una bella mostra, curata da Angelo Tartuferi e Gianluca Tormen e allestita alle Gallerie dell'Accademia di Firenze fino all'8 dicembre prossimo. Il titolo della rassegna – La fortuna dei Primitivi. Tesori d'arte dalle collezioni italiane tra Sette e Ottocento – intende volutamente rievocare il titolo di un libro di culto, La fortuna dei Primitivi. Dal Vasari al Settecento, pubblicato esattamente cinquant'anni fa da Giovanni Previtali presso Einaudi e rimasto, per tutti questi decenni, una sorta di stella polare per chiunque abbia voluto affrontare l'argomento. La mostra di Firenze esprime una forte originalità di taglio. Certo, la rassegna è gremita di maestri «Primitivi», ovvero di pittori, scultori e miniatori di prima grandezza, attivi soprattutto nel Trecento e nel Quattrocento. Parliamo di Guariento, Vitale da Bologna, Pietro da Rimini, Ambrogio Lorenzetti, Lorenzo Veneziano, Bernardo Daddi, Agnolo Gaddi, Orcagna, Scheggia, Beato Angelico, Vivarini, Mantegna, Cosmé Tura, Antonello da Messina, Lorenzo di Credi, Arnolfo di Cambio, gli Embriachi, i Pisano, Domenico Rosselli, Birago, Attavante e Bartolomeo della Gatta. Ma, nonostante tutti questi nomi rutilanti, i veri protagonisti della rassegna non sono gli artisti. Le "star" dell'esposizione sono, sostanzialmente, degli emeriti sconosciuti, una piccola legione di carneadi composta da gentiluomini di secondo rango, da cardinali poco in vista, da frati, abati, preti-avvocati, ambasciatori, letterati-eruditi e persino amministratori e contabili, i quali, allo schiudersi del secolo dei Lumi e nel primo Ottocento, ebbero l'intuizione del grande valore delle opere d'arte «primitive» e si misero a collezionarle avidamente, andando contro corrente rispetto alle mode collezionistiche del loro tempo, ancora indifferente al fascino del «medioevo fantastico» e del primo Umanesimo.
Dobbiamo a questi autentici pionieri del gusto se oggi i nostri musei possono disporre di mirabili sezioni medievali e rinascimentali. I nomi di questi "eroi" sono oggi noti esclusivamente agli addetti ai lavori, ma la mostra di Firenze ci offre l'opportunità di conoscerli ad uno ad uno, di vedere i loro volti, di apprendere le loro imprese e soprattutto di ammirare le opere d'arte da loro collezionate e salvate con lungimirante preveggenza.
Il viaggio di ricognizione parte da Roma, con il sacerdote-erudito Agostino Mariotti e il cardinale collezionista Stefano Borgia, al quale si deve – tra l'altro – l'acquisto della Santa Eufemia di Andrea Mantegna (oggi a Capodimonte), acquisto avvenuto attorno al 1780, quando Mantegna era ancora un emerito sconosciuto. In Umbria operò la famiglia Ranghiasci, che si rifornì di tavole riminesi del Trecento e umbre del Quattrocento; in Emilia entrarono in azione i nobili Malvezzi ed Hercolani di Bologna, e il marchese Alfonso Taccoli Canacci, ministro di Ferdinando I di Parma, che riempirono le loro case di fondi oro di gran pregio, oggi confluiti nelle principali raccolte pubbliche e private del mondo. In Toscana i pionieri del collezionismo dei Primitivi si chiamavano Francesco Raimondo Adami, Sebastiano Zucchetti, Giuseppe Ciaccheri, Luigi de Angelis, Angelo Maria Bandini, Ottavio Gigli, Riccardo Riccardi e Giuseppe Stiozzi; in Veneto vanno identificati con Tommaso degli Obizzi, Girolamo Ascanio Molin e soprattutto Teodoro Correr, grande collezionista-amateur al quale Venezia ha dedicato un intero museo.

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