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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2014 alle ore 08:15.

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Non credo sia stato un grande attore, anche se è stato un ottimo comico ed entertainer e in altri tempi lo si sarebbe definito un grande caratterista. La sorpresa e la commozione che hanno accompagnato il suo suicidio non possono far velo su un giudizio perplesso sulle sue scelte d'attore: nonostante una presenza ininterrotta sugli schermi cinematografici (e televisivi, da cui proveniva) i film in cui ha avuto modo di esprimere meglio le sue qualità sono pochi, e si è invece prestato a dozzine di operazioni più consolatorie che disturbanti, a un «cinema per famiglie» d'impronta disneyana tradendo la sua prima vocazione all'irriverenza. Si è lasciato rapidamente addomesticare o, più semplicemente, l'orizzonte delle sue ambizioni era solo quello.
Sembrava un nuovo Belushi, e in questa chiave lo intesero molti dei suoi primi registi, ma, a parte «Terry Gilliam dei Monty Python» con lo splendido La leggenda del Re Pescatore, il miglior film di Williams e quello per cui, con pochi altri, merita di restare nella nostra memoria, gli altri registi si affrettarono ad annacquare il suo vino e a condizionare la sua potenziale anarchia, trovando per farlo la sua ovvia adesione, ottimamente remunerata da Hollywood. Per un certo tempo, man mano che si esauriva la spinta degli anni Settanta e la pace interna era posta sotto il dominio sempre più radicale o totale, anche in cinema, di Wall Street e degli uffici–studio–e–pubblicità, e insomma di un mercato accuratamente controllato con conseguente standardizzazione delle proposte e superficialità delle risposte, il cinema americano ha continuato a darci opere significative, che hanno avuto anche in Williams una figura di rilievo. Non tanto Popeye, il suo film di esordio nel ruolo del protagonista, che era l'adattamento mediocre del grande fumetto di Sugar e del disegno animato dei Fleischer, mal controllato da Altman nonostante la sceneggiatura di Jules Feiffer, né altri supercolossi alla Hook, di Spielberg, quanto Mosca a New York di Mazursky (1984), o i suoi due trionfi di critica e di pubblico, Good morning Vietnam di Levinson (1987) e L'attimo fuggente di Weir (1989) seguiti dal film di Gilliam di cui si è detto, che è del '91. Quattro ruoli enormi, nei quali Williams ha dato il meglio di sé: un candido immigrato alla scoperta del «Paese di Dio» del capitalismo; il radiocronista senza peli sulla lingua nel quotidiano dell'atroce guerra del Vietnam (un film "piccolo" rispetto ai capolavori di Kubrick e di Coppola, ma non meno efficace nei confronti del pubblico); il professore che sa comunicare ai suoi allievi, in un'epoca e in una pedagogia dall'immaginario assai povero, pre-'68, l'amore della poesia, che è come dire della verità; e infine il barbone intellettuale che s'ostina a cercare il Santo Graal nel mezzo di una civiltà che si muove in tutt'altra direzione… Il suo ruolo più celebrato non è stato però questo, bensì quello del professor Keating amante della poesia (principalmente di Whitman) in L'attimo fuggente.
Il film di Weir si è prestato a suo tempo (e ancora oggi) a molti alibi pedagogici, in un'epoca di grande miseria (o si può dire morte?) di una pedagogia del rispetto e del coraggio, ma Williams ha affrontato il suo ruolo con evidenti entusiasmo e partecipazione. Degli altri film – tanti! – se ne ricordano molti, ma in definitiva nessuno fu altrettanto originale rispetto a quelli citati (ma fu un ottimo vilain in Insomnia di Christopher Nolan), e tutti gli chiesero prestazioni facili, compresa quella di Mrs. Doubtfire che divertì, commosse ed entusiasmò molto più del dovuto, compresa quella di Jack di Coppola, l'adulto ritardato con mente di un decenne, inferiore a mio parere a quella di Massimo Boldi in un ruolo simile in un film italiano "non d'autore". Compresa la variante americana del Vizietto, compreso Flubber, il remake di Un professore tra le nuvole, un divertente Disney per famiglie interpretato nel 1961 da Fred MacMurray.
Gli anni Novanta e quelli del nuovo secolo hanno continuato a vedere Williams tra gli attori americani di maggior successo, ma in opere quasi sempre codine e ipocrite, secondo un formulario ripetitivo e vieppiù stantio. Film per famiglie e in ottica rigorosamente di ceto medio, con partenze appena appena bizzarre e conclusioni sempre sempre bigotte: l'american way of life dei nuovi tempi, che sa bene come ricondurre all'ordine qualsiasi istanza vagamente libertaria, e rendere accettabile le diversità non politiche bensì dentro l'alveo dell'economia, del denaro. Era tale anche Will Hunting–Genio ribelle, che è l'unico film conformista e fariseo di Gus Van Sant e l'unico di cui quell'ottimo e coraggioso regista dovrebbe vergognarsi. Il film di Williams degli anni Duemila più degno di memoria è di Mark Romanek, One hour photo, e varrebbe la pena di ripescarlo. Era un dramma della solitudine, infine, che a ritroso potrebbe forse dirci qualcosa anche della "vita vera" di Williams. Negli altri, le astuzie del mestiere e le capacità indubbie dell'imitatore e del trasformista sono state pur sempre d'aiuto (in questo senso, non gli ha giovato in Italia il doppiaggio, incapace di rendere la varietà delle sue personificazioni, imitazioni).
Il destino di Williams ha seguito quello della società americana e dei condizionamenti della sua cultura di massa, più controllata o autocontrollata perché più utile all'esercizio del potere. Nella sua carriera, ha troppo inciso, come in quella di quasi tutti i grandi dello show business made in Usa, la mistura micidiale di fama e denaro con alcol e droga, il sesso come transitoria consolazione rapidamente foriera di nuovi guai (per es. i divorzi facili con la conseguenza degli alimenti). Lungo la strada, molte ingannevoli soluzioni, la psicanalisi o le psicanalisi, il new age o i new age (e qualsiasi altra forma di religiosità senza vera trasformazione e incidenza sulla vita reale). In fondo alla strada, la depressione, cui si può sfuggire transitoriamente con vari raggiri, ma che è una bestia che è sempre più difficile controllare o domare.

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