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Questo articolo è stato pubblicato il 17 agosto 2014 alle ore 08:15.

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È un toccante tratto umanistico a caratterizzare le due nuove produzioni rossiniane in cartellone al Rof di quest'anno, accomunando con inaspettata vicinanza le due regie di Luca Ronconi e Mario Martone. Il primo, che al Festival di Pesaro festeggia i trent'anni dal famoso Viaggio a Reims, firma una Armida solo apparentemente favolistica, ambientata tra due enormi teche dove stanno appesi in buffo ordine scalare due decine di pupi siciliani. Altri posti sono liberi tra i fili che sorreggono le marionette. E possiamo immaginare che lì finiranno Gernando e gli altri paladini delle crociate, nel mausoleo della giovinezza. Ma basta uno scossone, nel cambio di scena tra primo e secondo atto (Ronconi sempre gioca, malandrino, con gli imprevisti della vita nel teatro) e tutti i poveri pupi crollano a terra, ammucchiati in un tenerissimo ma anche ironico abbraccio.
Non teche, disegnate eleganti da Margherita Palli, ma un idilliaco squarcio di vita agreste, con tanto di caprette – quattro, vere e brucanti disciplinate – chiede Martone in apertura del secondo atto di Aureliano in Palmira: una Arcadia ritagliata fuori dagli inutili deliri di dominio e potere. In forte contrasto con il clima guerresco di tutta l'opera, dove il giovane Rossini (1813, 21 anni) fotografa e filtra l'Ottocento guerresco, di trombe e corni in gran virtuosismo, di ritmi marziali, di abissali imprevedibilità armoniche, a specchio con quanto a Vienna faceva Beethoven. Tanto per ricordarci che non esisteva allora una Italia, ma una ben più originale Europa della musica.
Martone giustamente tifa per Zenobia. Lei, regina di Palmira, affidata alla svettante vocalità di Jessica Pratt, luminosa negli acuti, nei sorrisi, nello sfavillante peplo dorato, si circonda di un corteo femminile dai veli colorati, di Ursula Patzak. Proprio innocue queste donne non sono, perché da un momento all'altro sono pronte a sfoderare spade, celate tra tappeti e doni offerti con inganno al conquistatore Aureliano. Che è tenore, con la tessitura incredibilmente estesa e squillante di Michael Spyres; prodigioso da solo, ma ancora più bello nelle parti a due con la Pratt. Come voleva Metastasio, ha ancora il profilo dell'imperatore solitario, che tutti perdona, rivali in guerra e in amore. Ma quanto ribolla nella sua anima inquieta, al di là dei saggi versi del libretto di Romani, Rossini lo racconta in orchestra in questa fantasmagorica partitura, autentico forziere di temi musicali.
Peccato che a guidare il tutto sia la bacchetta inerte di Will Crutchfield, che firma anche l'edizione critica: ammolla la Sinfonia subito dalle prime note, didascalico e pedante, lasciando così brillare nel ricordo la stessa, ascoltata la sera prima sotto la guida del giovane Giacomo Sagripanti, chiamato a debuttare al Rof nel Barbiere dei ragazzi, un po' cabaret nelle gag senza fine dell'Accademia di Urbino, ma raccontato e cantato a meraviglia da Juan Francisco Gatell, Chiara Amarù, Paolo Bordogna, Alex Esposito, e con la rivelazione del baritono Florian Sempey: 25 anni, ha la statura non solo fisica del gigante, per timbro, espansione, duttilità, allegria e finezza espressiva. Sarà a Parigi in settembre, "doppio" nel Barbiere di Michieletto.
L'estroversione spavalda, giocosa, magnetica dei cantanti del «Barbierino» mancava invece un po' nella Armida di Carmen Romeu, diligente nella cascata di note, ma un po' sfibrata e affaticata nelle puntate di scoperta virtuosità. E punita perciò dal severo, compunto e fedelissimo popolo del Rof, esperto di ogni dettaglio, ghiotto di palate di ritornelli. Anche non sempre necessari, ad esempio nelle danze, dirette piatte piatte da Carlo Rizzi, ma al contrario rutilanti nelle acrobazie della Compagnia Abbondanza/Bertoni, spettacolari e zoomorfe. Geniale Ronconi, lascia a loro il disegno del giardino degli incanti, per poi farci toccare per contrasto la solitudine assoluta della maga abbandonata. Sparita la dolcezza del Rinaldo di Antonino Siragusa, svanito il trio mellifluo di lui con gli altri due tenori, l'ottimo Dmitri Korchak e Randall Bills, a scena vuota resta sola in scena Armida. Non ha nulla da distruggere, tutto era un sogno. Così avvampa come fiamma, nell'abito lampeggiante di Giovanna Buzzi, alata e pronta a bruciare, altri e se stessa.
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Armida, Barbiere di Siviglia, Aureliano in Palmira; Rossini Opera Festival, Pesaro, fino al 22 agosto
il disco del sole
Rappresenta una maratona nel tempo l'ascolto della imponente raccolta di registrazioni rimasterizzate da poco conclusa dalla Warner: tutto Karajan, nei suoi dischi firmati Emi, raccolti in tredici ricchi cofanetti, debordanti tesori. Le Nove di Beethoven sono le leggendarie inglesi, del 1951-1955: piene di fantasia inventiva, nervose, veloci; meno monolitica la Philharmonia, rispetto ai successivi Berliner. Coi Wiener, tra il 1946 e il 1949, ci sono Mozart, Schubert e il mondo degli Strauss: da incanto. I solisti di quelle avventure rispondono prima ai nomi di Gieseking, Lipatti, poi di Kremer, Mutter, Rostropovich. La qualità del nuovo suono è smalto autentico, ritrovato. Un grande omaggio al direttore, scomparso il 16 luglio, un quarto di secolo fa.
Beethoven, Sinfonie; Philharmonia Orchestra, direttore Herbert von Karajan; 6 cd Warner

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