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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 07:09.
L'ultima modifica è del 22 agosto 2014 alle ore 15:14.

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Jordan Spieth è il nuovo Tiger Woods? Molti lo dicono, i più lo sperano, perché nel golf i giovani fenomeni non alimentano soltanto tifo e passione, sono la sopravvivenza di uno sport che negli ultimi anni soffre di un ciclo generazionale sfavorevole, i babyboomers invecchiano e i ragazzi fanno altro. Per corteggiare i millennials, i golf club inventano di tutto, dalle buche più grandi per evitare crisi isteriche sui green al "FootGolf", un mix piuttosto ardito tra calcio e golf concepito in Florida.

Jordan Spieth è l'erede che serve, un millennial texano, classe 1993 (aveva tre anni quando Tiger vinse il suo primo Masters), fantasioso quanto basta, soprattutto slanciato, affidabile, tecnicamente impeccabile, più ragione che emozione, ma pure Tiger è così. Il cuore del pubblico, ancora diciannovenne, Spieth ha saputo già come rubarlo: una domenica del luglio del 2013, al John Deree Classic in Illinois, ha imbucato un colpo dal bunker alla 72esima buca, con i commentatori televisivi che dicevano «difficile questo», perché dietro al green c'era un lago enorme, perché era il colpo per riagganciare i primi in classifica, perché in fondo Jordan è soltanto un ragazzo. Due rimbalzi, asta, buca. Spieth è andato ai playoff con due giocatori solidi, e li ha battuti.

Quanto basta per celebrarlo, per ricordare che ha studiato dai gesuiti, che a 12 anni già voleva diventare il migliore di tutti e l'ha confidato al suo primo coach, che ha una sorellina, Ellie, con problemi neurologici di cui non si sa l'origine, e per lui è «la più divertente di tutta la famiglia» anche se non sai mai se sta per ridere o per urlare, che ha nel palmares una doppia vittoria allo Us Junior Amateur, come soltanto Tiger.

Il paragone è sempre lì, bello e pesante come accade quando ti buttano addosso eredità tanto importanti mentre sai di avere difficoltà con il grip, è il tuo tallone d'Achille, e il driver non arriva mai abbastanza lontano da essere notato e pure con i ferri lunghi manchi di precisione. A quindici anni Jordan ha ribaltato lo swing, ore di pratica ininterrotta e di poche soddisfazioni e forse gli sembrava che quando il generale Petraues ripeteva in tv «andrà molto male prima di andare meglio» non parlava dell'Iraq, parlava del suo backswing: in quei mesi ha praticato soltanto ferri 7 «e li tiravo alti così», ha detto, segnando con la mano l'altezza di un bassotto. Poi è arrivato il Masters ad aprire, ad Augusta, il torneo più affascinante dell'anno con la giacca verde da infilare al vincitore, e Spieth è riuscito ad arrivare in testa alla terza giornata assieme a Bubba Watson, il meno ortodosso dei giocatori del Tour americano, mancino e con lo swing dinoccolato, molto cuore e poca ragione, il contrario di Jordan, il contrario di Tiger. Hanno giocato insieme, la sregolatezza di Bubba contro la linearità di Jordan. Ha vinto Watson, la seconda giacca verde in tre anni, un drive sulla buca tredici dell'ultimo giro così lungo da restare nella storia: Spieth è arrivato secondo, con un record anche lui, il più giovane a posizionarsi nei primi tre.

Il suo swing che sembra non comporti alcuno sforzo e la sua calma superiorità gli hanno fatto guadagnare il titolo di "Federer del golf", che alla sua età e con ancora tutto da fare è un gran bell'inizio. Pure se il driver dovrà per forza volare più lungo, non ci sono in alto nel ranking giocatori poco potenti, pure se all'entusiasmo del predestinato comincia a mischiarsi qualche ombra, «è tutto così divertente – ha detto dopo aver sperato di vincere addirittura il Masters – ma allo stesso tempo fa anche un po' male».

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