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Questo articolo è stato pubblicato il 22 agosto 2014 alle ore 07:09.

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Lo Stato di Israele è parte della storia europea, delle sue tragedie e rivolgimenti, così come di quella del Medio Oriente, della sua instabilità e complessità. Così è se volgiamo lo sguardo agli ultimi due secoli. Eppure esso è percepito in parte dell'opinione pubblica occidentale come un "disturbo" della Storia, fonte di problemi in virtù della sua colpa originaria: essere nato. I drammi e le sofferenze che hanno connotato il farsi di altri popoli, il sorgere di altre entità statuali sono ricondotti al corso della storia e il giudizio non inficia la legittimità dell'esistenza. Così non è per Israele.

Il sionismo non gode della stessa legittimità di movimenti nazionali che sorgono nella stessa epoca (ultima parte del XIX secolo) in Europa. Nel discorso comune, così come in quello di intellettuali, politici e organizzazioni sovranazionali, è identificato con l'idea di un'usurpazione violenta, colonialista e razzista (nel 1975 l'Onu definisce il sionismo «una forma di razzismo»). Come se la storia nel suo farsi concreto non contasse. Allo stesso modo la cronaca inserisce il conflitto israelo-palestinese nella narrazione di uno Stato usurpatore contro un popolo inerme depredato della propria terra, con l'uso di concetti che trasfigurano la realtà come quelli di "genocidio" o "crimini di guerra". È in occasione del riaccendersi del conflitto che dall'Onu giunge l'accusa di «aver commesso possibili crimini di guerra», con riferimento alle numerose vittime civili fra i palestinesi (ma che differenza passa, allora, tra crimini e atti di guerra che inevitabilmente provocano vittime?).

Il trattamento riservato a Israele si fonda sull'ignoranza di molti fatti. Da parte di noi europei si dimentica che il sionismo politico – dare una terra al popolo ebraico – nasce come risposta all'ondata di antisemitismo (e di pogrom) che scosse l'Europa a partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento. Si dimentica che Israele non nasce come l'invasione da parte di una qualche potenza di uno Stato abitato da un popolo, ma da progressive migrazioni (aliyot) in un territorio dell'impero ottomano (poi mandato britannico) abitato da arabi; che gli insediamenti prendono forma anche attraverso accordi con le autorità locali e acquisti di terre incolte e che se di colonizzazione si vuole parlare, non ci si deve riferire al colonialismo delle potenze europee, ma piuttosto al movimento di coloni in cerca di una vita normale (in un'epoca dove la colonizzazione era accettata come legittima). Si dimentica anche che da parte delle autorità arabe, di fronte alla presenza di popolazione ebraica nei territori palestinesi (circa mezzo milione di persone alla vigilia della Seconda guerra mondiale), si rifiutò, anche prima della risoluzione dell'Onu del 1947, di trovare una soluzione nella creazione di entità politiche separate e si preferì aizzare la popolazione arabo-palestinese contro gli ebrei e poi, nel 1948, quando i Paesi arabi attaccano il neonato Stato, farne massa di manovra istigandola ad abbandonare le proprie terre.

Ma i fatti, che consentirebbero valutazioni più equilibrate, non possono molto contro un odio che porta a utilizzare criteri di giudizio platealmente diversi per Israele e per quanto accade anche solo in altri Paesi dell'area e che è giunto a banalizzare la Shoah, sia paragonando gli israeliani ai nazisti, sia con l'accusa (grottesca se si conosce la tragica complessità del rapporto di Israele con la distruzione degli ebrei d'Europa) di un uso strumentale dello sterminio per legittimarsi davanti al mondo.

Ma questa banalizzazione, che tende a rovesciare la colpa, insieme alla visione distorta degli eventi, ci dicono che, forse, lo sguardo ostile verso Israele che ancora alberga negli occhi di tanti occidentali ancora esprime quel sentimento di diffidenza e paura verso un popolo diverso e particolare che Abraham Yehoshua pone alle radici dell'antisemitismo. Un sentimento che permane anche di fronte alla soluzione "normalizzante" del sionismo, paradossalmente, ma non troppo, perché quella soluzione ha dato a quel popolo una nuova forza, quella dello Stato.

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