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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2014 alle ore 10:29.

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Pedalando in Via delle Quattro Fontane, accanto alle zanzare, ai villini liberty, agli alberi abbattuti e circondati alla base da un mortuario nastro bianco e rosso, viene in mente che non c'è funerale senza cerimonia. A esser benevoli, come disse Natalia Aspesi, al Lido si respira una vaga aria «di convalescenza». All'ora del desco, gli operai che sudano sotto il sole, esposti al soffio tenue di uno scirocco senza consolazione, si abbandonano come Anna Longhi moglie del fruttivendolo Alberto Sordi in visita alla Biennale ne Le vacanze Intelligenti. Mangiano frittata, bevono familiari di Peroni gelata e pur senza fantozziano rutto libero, in educata pausa dai doveri, sembrano installazioni viventi che ignorano nessi e ragioni del circo in allestimento. Marcello Mastroianni, uno che a Venezia veniva malvolentieri («Mi sento a disagio, incontro un sacco di gente, dottori, commercialisti, degli ometti sconosciuti di cui ti domandi: ma che c'entrano questi con il cinema? Che ci stanno a fare qui? Chi sono?»), piuttosto che sfilare, avrebbe preferito aiutarli con il martello pneumatico. «Io sono un perito edile», diceva Marcello: «quello dovevo fare. Lì dovevo restare. In cantiere, con i muratori. Nessuno mi avrebbe chiesto di essere brillante o di avere personalità. Sarei stato benissimo a costruire palazzine. Un mattone sopra l'altro fa un muro. Non si discute». La logorrea lagunare, Mastroianni l'aveva capito, è una grave malattia. In luogo della sublime sintesi lagunare dell'autore di Ombre rosse («Mi chiamo John Ford e faccio western») o dello stupore infantile dello straordinario e già incanutito Dino Risi («Mi hanno accolto in modo magnifico, non mi aspettavo tanto affetto da parte della gente. Quasi quasi fondo un partito»), il «battimani perpetuo» già infilzato da Tullio Kezich, le grottesche lamentele fine anni Ottanta di chi come Andrea Barzini si scopriva suo malgrado afasico («Che razza di Festival è mai questo? Tutti si occupano di Chiambretti e a noi registi al massimo dedicano tre righe. Tanto valeva restarcene a casa»), la cattiveria di prammatica per la boiata pazzesca in salsa d'anguilla con Valeria Marini o, al contrario, l'immancabile film d'arte di ascendenza turkmena che provoca fughe all'aria aperta, ma su cui è vietato eccepire. Un'omologazione ambientale da riserva indiana così lontana da quella dei Sessanta, quando almeno, di fronte alle citazioni indebite di Amelia Rosselli e alle battute di Monica Vitti incolpevole musa di Antonioni in Deserto Rosso, i colleghi di Michelangelo (qui Lèonide Moguy) qualche eccezione di merito la ponevano («Penso che se si vuole salvare il giocattolo bisognerà orientarsi verso opere più spettacolari, più semplici.

Altrimenti il cinema è spacciato»), e comunque distante dalle vivaci edizioni in cui il regista brasiliano Glauber Rocha, rimasto senza coccarde né riconoscimenti, nei ricordi di Tatti Sanguineti «si aggirava scalzo in laguna, con la camicia aperta al quarto bottone, bestemmiando geremiadi di insulti contro la giuria. Suso Cecchi D'amico era la dattilografa di Visconti, il critico Michel Ciment un uomo della Cia e Gillo Pontecorvo, naturalmente, una spia sovietica». Glauber – ricorda Sanguineti che a Venezia porta un bel documentario sul rapporto tra il cinema e Andreotti – beveva, «anche molto, ma la Biennale copriva solo parzialmente gli extra dell'albergo» e a differenza di Fassbinder, il più abile a tagliare la corda un istante prima di pagare il conto, Rocha considerava il perimetro del mondo come il fazzoletto della sua perenne guerra di trincea. Spento anche il fuoco dell'ultima resistenza, Venezia prova a uscire all'aria aperta. Mino Monicelli, su L'Europeo, non le dava eccessive speranze: «La stagione giusta è quella del Festival di Cannes, maggio, quando il clima è energetico o quella di Acapulco, novembre, quando il Messico è splendido e la Sierra esilarante. Ma al Lido l'aria è già marcia d'autunno. A Cannes la cucina è buona, c'è il bal-musette e gli spettacoli con le donne nude. Qui c'è un solo night, ma in compenso organizziamo le tavole rotonde dove siedono tipi zazzeruti che discutono di storiografia e di estetica cinematografica, ma non sanno che il cinema l'ha inventato Charlot con le torte in faccia». Era il 1967. Quarantasette anni fa. A guardare nei ricordi sembra ancora ieri.

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