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Questo articolo è stato pubblicato il 23 agosto 2014 alle ore 10:29.

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Il golf è uno sport per imperialisti borghesi, Mao Tse-tung lo vietò in Cina, il campo di Shanghai fu trasformato in uno zoo, molti altri percorsi furono ricoperti di terra, e chi si azzardava a tirar palline rischiava la galera. Il «parcogiochi degli occidentali milionari» (il copyright è dell'ultima moglie di Mao) faceva il paio con il "green opium", sintesi del disprezzo comunista per il capitalismo sul campo da golf. Soltanto negli anni Ottanta, quando la Cina si è aperta al mondo, il golf è riemerso, pure se formalmente ottenere le licenze per costruire campi è di nuovo stato vietato nel 2004, una presa di posizione di principio abbastanza ridicola se si pensa che, nel Paese in cui il golf è un tabù politico, in dieci anni sono stati costruiti almeno seicento campi, che quest'anno per la prima volta è stato organizzato un tour del Pga, e che non si fa che parlare dei giocatori cinesi emergenti su tutti i circuiti, come Guan Tialang, che a 14 anni l'anno scorso si è qualificato al Masters di Augusta e guida la rivoluzione asiatica under 18, o come Lucy Li, undicenne sino-americana (i genitori sono di Hong Kong) che ha partecipato all'Us Open femminile lo scorso giugno come giocatrice più giovane di sempre. In The Forbidden Game.

Golf and the Chinese Dream, Dan Washburn racconta che i nouveaux riches cinesi amano giocare, il golf fa parte di uno status sociale che va di pari passo con le auto e gli orologi di lusso, per non parlare delle ville costruite attorno ai campi, ambitissime. Uno dei protagonisti del libro, Zhou Xunshu, diventa il simbolo del "sogno cinese" in versione golfistica: faceva la guardia di sicurezza in un club, passava le giornate a osservare i giocatori con il binocolo, quando propose di fare un tiro in campo pratica tutti ridacchiavano, poi sparò un drive perfetto e si fece silenzio tutt'attorno. Il "sogno cinese" di milionari e appassionati è garantito dai solerti funzionari di partito, che se ne approfittano: la terra è ufficialmente di proprietà dello Stato, ma i governi locali la danno in leasing ai costruttori a prezzi molto alti e trattengono buona parte del profitto. I contadini protestano, ma al primo assembramento più visibile vengono dispersi dalla polizia e sconsolati ripetono: «Mei banfa», non c'è niente da fare. Così il business cresce, anche se nelle statistiche i giocatori di golf sono lo zero per cento e esiste una "polizia del golf", funzionari del governo che arrivano quando i campi sono in costruzione e danno ordine di distruggere tutto, a meno che i presenti non siano abbastanza lesti nel «non menzionare il golf», la regola che tutti gli addetti ai lavori conoscono alla perfezione.

Anche Zhang Lianwei ne sa qualcosa, lui che è il golfista più decorato di tutta la Cina, il primo ad aver partecipato al Masters negli Stati Uniti (nel 2004) e testimonial prediletto degli investitori stranieri che vogliono esportare il golf tra i cinesi: nel paradosso di uno sport che dovrebbe essere invisibile, Zhang ha disegnato il percorso di uno dei resort più spettacolari del Paese, Mission Hill. Capitalismo e corruzione si muovono assieme in Cina, perché il governo centrale è lontano e, al netto dell'ideologia, abbastanza pragmatico da capire quanto sia redditizio il business del golf. Ma la forma conta, nei regimi, e allora per non mostrarsi troppo desiderosi di lusso e Occidente, i governatori hanno trovato uno stratagemma ideologico. Uno dei progetti più ambiziosi (22 percorsi da 18 buche ad Hainan, l'isola del Sud dove i cinesi ricchi hanno la seconda casa) è stato approvato come «il progetto ecologico e di consolidamento rurale del distretto di Yangshan». Le foreste e l'ecosistema subtropicale vengono distrutti per praticare uno sport da occidentali decaduti assediati dagli ambientalisti e Pechino giustifica il tutto con «il rispetto per la natura» – solo i cinesi sono in grado di tanta meraviglia.

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