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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2014 alle ore 08:14.

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Eric Hobsbawm ci ha insegnato qualcosa anche sui Festival. Il loro successo è quello delle località medio-piccole. Lo ha confermato proprio De Rita, profeta del «secondo miracolo economico», quello della provincia e del medio-piccolo.
I veri festival favoriscono una esperienza comunitaria che non corrisponde a un caso, ma a una intenzione: non importa se è inconscia. Le menti vivaci di queste località vogliono ritrovarsi di persona. Ma anche chi viene da più lontano non assiste al festival come si guarda la televisione. Incontrare altri partecipanti, scambiare commenti, fare amicizia sono cose su cui si conta già in partenza, soprattutto fra i più giovani. Un festival richieda spostamenti, pasti fuori casa, biglietti: eppure il suo successo è assicurato da ragazzi con pochi soldi e il funzionamento garantito da volontari ricompensati con l'immersione nella cultura.
I festival fioriscono soprattutto in Italia: affondano le radici nel 1800, quando i teatri costruiti dalla borghesia locale offrirono drammi e opere musicali. Tra l'ottocento e il novecento la società si laicizza: diminuisce il numero di chi si ritrova in chiesa. Ma socializzare è un bisogno umano originario. Così, il vuoto è riempito dagli eventi culturali, che allargano la base diventando occasioni di istruzione e di dibattito politico.
Dopo due Guerre Mondiali esplode il desiderio di condividere e gioire. Si apre una forbice generazionale. L'opera e il dramma teatrale compiono una svolta classica, per un pubblico meno giovane. Le nuove generazioni socializzano attraverso culture alternative e politica. Infine, con la «morte delle ideologie», si libera una massa che confluirà nei festival attuali: il cui nerbo rimane composto da giovani politicamente consapevoli.
Certo, occasione di aggregazione è anche lo sport. Ma lo spettacolo sportivo è basato sul vincere o perdere. Il festival invece compie quasi un miracolo: sospende il tempo, eliminando proprio la competizione che oggi lo intossica. In un certo senso, vincono tutti perché non assistono, ma partecipano. «Partecipazione» non è uno slogan inventato per attirare più pubblico e più volontari: è ancora un bisogno originario nella esperienza della cultura e dell'arte. Una spinta dell'inconscio collettivo che si manifesta in ogni società e in ogni epoca: anche se il presente massificato e consumista rende più difficile percepirla. Del resto, fino a Sant'Ambrogio – che inventò la lettura solamente mentale – anche leggere era partecipazione corale: i libri erano pochi, costosissimi, si leggeva a voce alta in un gruppo estatico. Una esperienza totalizzante e gratuita era ancora possibile andando a messa nel Rinascimento: tutti insieme, ascoltare musiche, contemplare una Madonna di Raffaello fresca di pittura. Oggi ammiriamo la stessa Madonna isolati in un museo: ha un valore solo economico, ha perso quello totale.
Facciamo un altro passo indietro. Anche nel teatro greco lo spettatore non assisteva passivamente, ma partecipava. Non era intrattenimento, era educazione al problema del bene e del male.
La città ascoltava, piangeva, mangiava, discuteva ferocemente il dramma orientando la propria politica. Ma le belle epoche finiscono. I romani conquistarono la Grecia e trasformarono i teatri in circhi. Roma era una prima società di massa e promosse l'intrattenimento di massa: panem et circenses, nutrire i sudditi e divertirli. Al circo, lo spettacolo era diverso dal teatro: animali feroci che sbranavano altri animali o uomini, gladiatori che duellavano. C'erano sempre vincenti e perdenti: c'era perfino lo splatter. Il pubblico non doveva pensare ma identificarsi col vincitore. La cancellazione del pensiero aveva una doppia funzione: lo faceva rilassare (anticipando il sonnellino davanti alla televisione) e lasciava più libertà ai governanti. Quando Roma divenne cristiana ci fu chi protestò. Il monaco Almachio andò al Colosseo per fermare gli ammazzamenti: ma venne ammazzato a sua volta, perché stava rovinando lo spettacolo.
Anche oggi non è così diverso. Il calcio può diventare una continuazione del circo: se al pubblico manca un po' di sangue, a volte se lo procura coi coltelli. Perfino il semplice talk-show televisivo, nato per produrre opinioni, spesso si riduce al massacro di un dialogante.
Inconsapevolmente, molti giovani che appartenengono a quella che ho chiamato «nuova generazione critica» affluiscono nei festival perché non riescono ad accontentarsi delle comunità virtuali, che non scardinano davvero la solitudine e causano privazioni sensoriali. Vogliono partecipare con l'anima e il corpo. Sentono che non basta l'identificazione col vincitore là fuori. Uno spettacolo deve anche far vincere qualcosa qui dentro, nella psiche: nutrire non solo una giornata, ma le riflessioni di quelle successive. I frequentatori dei festival sono persone che già leggono molto. Eppure essi cercano una lettura «pre-Sant'Ambrogio»: quella comune, con le emozioni condivise la cui importanza oggi persino le neuroscienze confermano.
Per il loro inconscio, le conferenze dei festival sono questo. Gli altri giovani, che restano la maggioranza, sono i "romani" e si comprano le emozioni passive del circo-competizione. Loro, sono i "greci" co-protagonisti del teatro: e il loro patrono è Sant'Almachio. Se non si faranno romanizzare e resteranno insieme, non faranno la fine di lui.
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