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Questo articolo è stato pubblicato il 24 agosto 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 24 agosto 2014 alle ore 15:33.

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Da quando negli anni 80 il filosofo francese Baudrillard associò il design alla nozione di seduzione che «sottrae al discorso il senso e lo svia dalla sua verità», un'aura di superficiale passione per le apparenze gli è rimasta appiccicata addosso. Il glamour della sua più divulgata immagine (legata alla svagata propensione postmoderna per l'uso iperbolico di forme e linguaggi) ha fatto dimenticare che dietro l'apparenza di un'arte al servizio dei consumi si cela ancora un nucleo duro di riflessione, se non proprio di dissidenza.

Un "lato oscuro", insomma, che emerge con la rabbia della protesta, con l'ironia spiazzante del paradosso o con l'osservazione poetica della realtà. Sembra dunque quasi un appuntamento preannunciato quello tra Gaetano Pesce (1939) ed Ettore Sottsass (1917-2007), cui rispettivamente vengono dedicati una grande rassegna al Maxxi di Roma e una sontuosa monografia coprodotta da Electa e Phaidon.

La coincidenza è più emblematica che casuale, perché con metodi ed effetti diversi, sia Pesce sia Sottsass rappresentano la coscienza critica di un progetto che pare sempre troppo riduttivo ricondurre alle storie canoniche del design, alle cronache delle avanguardie, dell'architettura o del costume. Sia l'uno sia l'altro infatti sono espressione di quella poliedricità istrionica con cui a cadenze irregolari l'Italia riesce a stupire il resto del mondo o perlomeno a insinuare il dubbio che le novità più durature possono provenire anche dalle province dell'Impero. Pesce e Sottsass appartengono a due generazioni diverse ma dalle traiettorie incrociate: sono stati entrambi autori di opere diventate icone della "trasgressione" e addirittura punti fermi dell'ufficialità del design del XX e del XXI secolo.

Nel 1969 la sedia Up di Pesce lancia il tema del corpo, dell'eros e della protesta femminista; negli stessi anni Sottsass disegna la macchina da scrivere portatile Valentina, simbolo del nomadismo pop della decade dell'immaginazione al potere. Ma se il corpo cui fa riferimento Pesce sembra un incrocio tra Bacon ed Hermann Nitsch (violentato, grumoso, opaco), quello di Sottsass ha la levigata allegria di una figlia dei fiori: colorato, sinuoso, decorato. In ogni caso, si tratta di un antropomorfismo indiretto che vuole reintrodurre nel mondo artificioso del fatto a macchina l'eredità del suo referente diretto: l'uomo.

Maestri, ciascuno a suo modo: con la forza irruente dello sciamano Pesce, con quella pacifista del guru Sottsass. Espressioni di una voracità che ha eguali forse solo nella pretesa futurista di riscrivere l'Universo, ma senza quella carica ideologica che distingueva il mondo in avanguardisti e passatisti. Entrambi hanno praticato infatti le vie di mezzo dell'utopia gentile, decidendo ad esempio di collaborare con l'industria: comincia nel 1958 il lavoro di Sottsass con Olivetti che durò quasi 30 anni; mentre stretti sono tuttora i contatti di Pesce con le principali aziende del mobile e degli arredi, senza i quali le sue opere sarebbero rimaste isolate performance d'artista.

Entrambi hanno seguito una pratica borderline tra oggetto e architettura, forzando naturalmente i limiti di ognuna nello sforzo di immaginare un'opera totale, dove si azzerano i confini tra discipline per porre in primo piano la rappresentazione della vita. Pesce esordisce nel 1959 a Padova col Gruppo N, sposando il movimento italiano d'arte programmata, e subito dopo attraversa da protagonista la stagione del "radical design", che in quegli anni aveva il suo incubatore internazionale nella rivista milanese «Casabella» di Alessandro Mendini. Sottsass, introdotto all'arte dal suo maestro Spazzapan, partecipa nel 1947 al movimento d'arte astratta e concreta, esponendo a Roma, a Milano, a Parigi.

Pesce si applica all'architettura con la stessa voracità con cui manipola i materiali plastici delle sue opere: immagina architetture soffici, pareti a scaglie, case di gomma con colori che cambiano durante il giorno; ma anche spazi sotterranei dove rifugiarsi in un possibile day after. Sottsass arriva più tardi all'architettura, anche se i suoi lontani esordi con il padre lo colgono intento in una delicata e critica revisione dell 'ortodossia razionalista. L'architettura d'interni gli apre nel dopoguerra la possibilità di far esplodere l'intimismo di una poetica della scomposizione sottile che negli anni della grande fama internazionale gli consentirà performance brillanti come la casa Wolf in Colorado o quella per Bischofberger a Zurigo. Aldo Rossi, che lo aveva invitato a disegnare gli interni del suo albergo a Fukuoka, ne colse con acume la «malinconia dissolutoria», il tarlo di un sentimento che andava diritto «alla distruzione di un'architettura stabile», anche quando, negli anni di Memphis, sembrò più cedevole alle lusinghe dell'anarchismo formale.
Tutti e due hanno scritto capitoli di una storia tipicamente italiana: attraversando, come dice Francesca Picchi, «miserie e nobiltà di un intero secolo», che hanno cercato non solo di descrivere, ma anche di indirizzare, forzandone i limiti oltre ogni ragionevolezza.
Riversandovi cioè gli umori più torbidi o esaltati di una visione cosmica del mondo, di cui case e oggetti, arredi, spazi, utensili sono le tracce residue, vistose o inquietanti. A volte anche ansiogene come le installazioni di Pesce nelle gallerie del Maxxi, perché frutto di un'urgenza simile a un'emergenza: quella di testimoniare che il mondo non è solo ciò che si presenta nell'apparenza delle cose; ma che anzi dietro ognuna di esse può agire la forza di un pensiero più urticante che gradevole o grazioso.

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