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Questo articolo è stato pubblicato il 27 agosto 2014 alle ore 08:27.

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Rigorosi e geometrici, i mobili Lago sono ispirati da uno spiccato minimalismo formale fondato sull'idea forte di sottrazione, intesa come reazione al decoro fine a se stesso; garantiscono alti livelli di personalizzazione attraverso il colore e la componibilità, puntano su qualità dei materiali e lavorazioni artigianali e – infine, ma non ultimo –hanno prezzi del tutto accessibili. Ecco: gli arredi prodotti in questa fabbrica-studio ecosostenibile di Villa del Conte, a una trentina di chilometri a Nord di Padova, si presentano più o meno così; ma in due ore di conversazione con l'amministatore delegato (ed "Head of design") dell'azienda, di tutte queste cose si parla poco, quasi niente. E soprattutto – fortunatamente – non in questi termini.

Ultimo di dieci figli, 42 anni, Daniele Lago non ha alle spalle né titoli accademici né ricercate esperienze internazionali. Ha interrotto la carriera scolastica precocemente, quindi ha accarezzato – per poi vederlo svanire – il sogno di sfondare nel mondo della pallavolo. Una dozzina di anni fa, quando ha preso in mano le redini della ditta di famiglia, la Lago era una realtà di provincia con una ventina di dipendenti; oggi ne ha circa 180, il fatturato supera i trenta milioni di euro, i confini si allargano di continuo con progetti che intrecciano design e comunicazione, produzione e fornitura di servizi. Quello che non gli ha dato il curriculum, Lago l'ha compensato con l'entusiamo, la curiosità, la voglia di fare qualcosa in grado di creare valore. «Mi considero il nipote di questo capitalismo con la pancia piena: una persona fortunata, con mezzi ed energie da investire», chiarisce con tipico pragmatismo veneto. «Il mio obiettivo è mettere in cortocircuito profitto e cultura. Per me il business non ha un'accezione negativa, ma voglio che sia messo al servizio di un contenuto, che migliori la vita. Non ho l'ossessione del denaro, non me ne frega niente... Chiariamoci però, qui dentro sono un killer: l'azienda deve essere solida, con margini di bilancio che diano sicurezza a lungo termine per lavorare tranquilli». Per Daniele Lago il design è uno strumento di trasformazione sociale, un mezzo per generare significato. «Il concetto di esperienza è sempre più centrale nella nostra epoca, ed è per questo che il prodotto in se stesso tende a stufarmi. Io devo occuparmi anche di altro: non solo del "pieno", ma del "vuoto"; delle conseguenze del primo sul secondo. Come dico spesso, è più importante quello che succede intorno al tavolo rispetto al tavolo stesso; d'altro canto, è anche vero che se questo oggetto non c'è, fisicamente, a svolgere la sua funzione, allora anche quelle occasioni e quelle esperienze si perdono».

Relazioni, socialità, condivisione; e il concetto di rete che si espande, travalicando il mondo delle connessioni digitali per diventare il paradigma del mondo in cui viviamo. Sono questi i pilastri della vision aziendale – per dirla con gli anglosassoni –, questi i principi che ispirano tutte le nuove iniziative. Racconta Lago: «A Milano partecipiamo a Open, in viale Montenero, uno spazio dove si può leggere un giornale, comprare un libro, incontrarsi, lavorare, mangiare insieme; gli arredamenti sono i nostri, li puoi vedere, "vivere" e acquistare: ti facciamo entrare in un mondo, insomma, così come succede con gli Appartamenti Lago, case di privati cui noi diamo i mobili a condizione che loro, i tenants, aprano le stanze a eventi e incontri. Con Lago at Work, invece, coinvolgiamo gli uffici: li invitiamo a ridisegnare le meeting room con le nostre cucine e i nostri community tables, per attivare scambi inediti. E poi c'è Lago Welcome, l'evoluzione del concetto di albergo diffuso: immagina una comunità di accoglienza sullo stile di Airbnb, con gli appartamenti arredati con i nostri prodotti secondo i gusti e le esigenze dei proprietari...Mi piace pensare a tutto questo come a un insieme di seminatori, di ripetitori, di emanatori di energia», continua l'imprenditore, tracciando cerchi concentrici su un foglio di carta: «persone che sono parte attiva di un processo più ampio. L'ho scritto nel nostro manifesto: "Il design sei tu, noi forniamo l'alfabeto".

In altre parole, io metto il pomodoro, la pasta, il basilico, il formaggio; tu poi fai il tuo piatto, come vuoi». E qui si torna al punto di partenza, alla necessità di adeguarsi ai cambiamenti imposti dalla contemporaneità. «Il dio designer è morto», sentenzia Lago. «La personalità famosa che impone il suo ego appartiene a un mondo finito. Non esce fuori nulla di straordinario se anche il commitente, il fruitore non porta le sue idee e la sua forza. Siamo tutti, allo stesso tempo, docenti e studenti; ogni occasione è buona per imparare qualcosa. È quello che ripeto ai ragazzi che vengono ai nostri workshop: massacrateci, dico loro, fateci capire che cosa secondo voi non funziona e che cosa si potrebbe fare di nuovo. Io non ho formazione», conclude, «eppure mi chiamano in giro, a tenere lezioni... Quello che so l'ho imparato sul campo, con entusiasmo, osservando. Ho beneficiato di una continua formazione estetica. Qui, nell'arco di pochi chilometri ho Venezia da una parte, le opere del Canova dall'altra, dall'altra ancora le ville del Palladio. Forse non ci rendiamo conto, noi italiani, della nostra fortuna... Come pesci che non sanno di nuotare nell'acqua».

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