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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2014 alle ore 10:12.

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Uno dei rischi, quando cresci in povertà, è che dopo la laurea ti metta in testa di trovare un lavoro serio, perseguire una carriera e accumulare denaro a prescindere dalla tua naturale inclinazione. Il fatto è che spesso fare soldi diventa la tua naturale inclinazione. Se fosse stato vittima di questa linea di pensiero, oggi non avremmo Geoff Dyer. E sarebbe una grandissima perdita.

Di estrazione proletaria ma laureato a Oxford, Dyer torna più volte sulla sua formazione ne Il sesso nelle camere d'albergo (Einaudi, in libreria dal 29 agosto) una raccolta di saggi scritti tra il 1989 e il 2010 in cui spazia dalle fotografie di Richard Misrach, l'uomo che mappa i deserti, al modo in cui il sesso si riconfigura all'interno di una stanza che paghiamo ma non abitiamo. Quando ripercorre le sue origini, però, lo fa senza incappare negli automatismi della rabbia giovane. C'è un solo momento in cui cede al sentimento, ed è quando nel saggio «Essere figlio unico» abbraccia la madre al ritorno dal college e sa che in quella stretta c'è il presagio della vita diversissima che condurrà, e l'impossibilità di potergliela raccontare. La scrittura di Dyer è sincera e onesta, ma è più un esercizio per la mente che un reflusso del cuore. Ed è per questo che quell'abbraccio è commovente: perché non ce lo aspettiamo.

La classe può renderti uno scrittore terribile, o ti può liberare. Dyer si è liberato. Se ha amato D.H Lawrence tanto da scriverci un saggio (Out of sheer rage: wrestling with D.H. Lawrence) è perché gli ha fatto capire che anche se la povertà ti altera la struttura molecolare, c'è molto che puoi dimenticare. Così, dopo il college, si è messo a vivere con i sussidi di disoccupazione e a scrivere. Chi lo dice che uno svantaggiato non può concedersi il lusso di perdere tempo? Chi lo dice che uno scrittore deve essere per forza un romanziere? E infatti lui non fa romanzi: fa libri. «Scrivere è stato un modo per non avere una carriera», dice spesso. Una battuta che troveremmo irritante in gente meno brava e accorta: Dyer ha pubblicato quasi subito con editori prestigiosi, si accompagna a membri del jet-set, ha accesso a luoghi preclusi a molti (ha pubblicato da poco Another Great Day at Sea: Life Aboard the USS George H.W. Bush, un resoconto ilare delle settimane trascorse a bordo di una nave portaerei americana). Non esattamente modesta, come carriera. Ma se c'è un'attività editoriale che non somiglia per niente a un lavoro, è la sua. Non scrive ogni giorno, e per essere un intellettuale studia anche poco.

Non è vero che una vita del genere bisogna potersela permettere: bisogna anche sapersela concedere. Quando ha perso l'unico lavoro serio che abbia mai avuto, Dyer ha accettato di vivere con poco e niente. Questa incoscienza, questo muoversi per tentativi, è ciò che rende i suoi scritti così superiori a tanta non fiction che circola. C'è un episodio abbastanza esemplare a proposito: quando nel 1989 si trovava a New York per fare ricerca sul materiale che sarebbe confluito nel suo libro più famoso, Natura morta con custodia di sax, faticava a spiegare ai bibliotecari quello che stava facendo. Non era un libro storico, non era una biografia e lui non era uno studioso. Che credenziali aveva per parlare di jazz? Nessuna, solo che gli piaceva ascoltarlo. «Non sono un esperto» è una frase che ricorre spesso nei suoi libri: specialista di niente, Dyer rivendica il diritto di scrivere di tutto. L'intimità coi luoghi non è una chiave di accesso privilegiata, e l'inesperienza davanti a un mondo spesso produce un racconto più utile su quel mondo.

Con il suo metodo spacciato per non metodo, non è una sorpresa che Dyer sia allergico alla fidelizzazione e alla routine. Ma è un uomo abbastanza onesto da ammettere che si può cambiare idea: nel saggio intitolato «Anche detta condizione umana», racconta di quando viveva a New York e aveva sviluppato un'ossessione per le ciambelle della Doughnut Plant; una dipendenza che ha finito con il qualificare la sua esperienza in città. Tornare a New York e non ritrovarle, o trovarle con un sapore diverso, ha irrimediabilmente alterato la sua felicità. Saputo che la stessa ciambella era in vendita in Giappone, invece di esplorare il paese, si è rifugiato in un bar americano nel tentativo di ritrovare quella sensazione. A ulteriore dimostrazione che, come scriveva Edna St. Vincent Millay «la vita non è una cosa dopo l'altra, ma è la stessa maledetta cosa daccapo e daccapo». Figlio di un uomo che gli ha consigliato di non mettere mai niente per iscritto, Dyer non solo sa cambiare idea, ma anche fallire con eleganza. Da giovane si è trasferito a Parigi per scrivere un romanzo struggente e triste come Tenera è la notte, ma non gli è riuscito, così ha ripiegato su un saggio sulla Grande Guerra, una cosa che non sapeva di voler fare.

Anni dopo, si è reso conto che quel fallimento, quell'incapacità di restare sulla strada maestra, gli ha dischiuso dozzine di possibilità, e che proprio non restando fedele a quell'idea che aveva di sé, è riuscito a non tradirsi. Dyer non ha paura neanche di essere dissacrante: spesso auspichiamo che le tombe e i monumenti storici ci procurino un fremito, ma cosa succede se dopo tanto peregrinare arriviamo lì e non sentiamo niente? Lo scrittore va in Algeria per Camus, solo per scoprire che non ha nulla da raccontare su quel posto, se non l'impossibilità di raccontare quel posto. Questo raddoppiamento della visione e sbavatura della memoria è un aspetto centrale dei suoi saggi, che così spesso si occupano di fotografia. Ma anche in questo spirito dissacrante, c'è una serena accettazione del limite: Dyer si è arreso a non trovare un lavoro, a non saperlo fare, e tenendosi al riparo dall'accademia e dal sogno della realizzazione personale in un'epoca storica che in fondo gli è stata complice, ha inanellato un saggio più bello dell'altro. Camus nei diari scriveva: «Ti sei dimenticato che ci vuole un coraggio immenso a provare, ma anche a lasciar andare con grazia». Quando leggo Dyer, penso che è questo che ha fatto: ha lasciato andare con grazia, dimostrando che possono succedere cose bellissime alla scrittura quando è dettata dal desiderio, e non dalla disciplina. E nei suoi libri, manco a dirlo, il desiderio è tutto.

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