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Questo articolo è stato pubblicato il 28 agosto 2014 alle ore 17:39.
L'ultima modifica è del 29 agosto 2014 alle ore 07:20.

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Una scena del film "La vita oscena"Una scena del film "La vita oscena"

Per la competizione "Venezia 71" bisognerà aspettare domani con "Anime nere" di Francesco Munzi, ma intanto oggi al Lido è passato il primo film italiano, La vita oscena, di Renato De Maria, in gara nella sezione "Orizzonti" del festival. La pellicola, ispirata alla vita del poeta Aldo Nove, e interpretata da Isabella Ferrari, Clement Metayer e Roberto De Francesco, racconta la storia di Andrea, poeta adolescente, che tenta il suicidio dopo aver saputo della malattia incurabile della madre (Isabella Ferrari) e della morte improvvisa del padre.

Ma la scioccante sorpresa di oggi è The look of silence, il documentario di Joshua Oppenheimer sul genocidio indonesiano. Oppenheimer - già era stato nominato all'Oscar per il precedente The act of killing sempre sul massacro di un milione di persone avvenuto dopo il colpo di Stato di Suharto nel 1965 - questa volta mette a confronto i familiari delle vittime e gli aguzzini. Straordinaria la forza del personaggio principale, Adi, che con empatia ed estremo autocontrollo, affronta la sbruffoneria di chi è stato mandante ed esecutore dell'omicidio di suo fratello Ramli, che non ha mai conosciuto. Immagini poetiche si alternano alla volgarità dei racconti di violenza, branditi con spacconeria dai killer impuniti, molti dei quali ancora al potere. Adi è misurato nel tono e nei modi, ma determinato a conoscere la verità e a creare la consapevolezza della gravità dei crimini commessi a chi ha fatto la propria fortuna sui cadaveri dell'eccidio, in cui furono sterminati non ben definiti "comunisti". Ugualmente Adi si relazione con i figli, le mogli e i parenti di chi ha fatto parte degli squadroni della morte.

È compassionevole verso chi non ha colpe, ma vuole che tutti siano consapevoli dell'ingiustizia perpetrata. Il documentario nasce per volontà dei sopravvissuti: «Sono venuti a cercarmi loro stessi – puntualizza Oppenheimer – e a chiedermi di incontrare gli aguzzini. Io ero andato nelle loro piantagioni nel 2003 per capire come potessero vivere gravati dall'ignominia dell'etichetta di "politicamente impuri", sistematicamente soggetti a estorsioni e ridotti a un regime di apartheid economico». Fino a che l'esercito è venuto a conoscenza del progetto, minacciando di morte i testimoni: «Allora i sopravvissuti mi hanno spinto a chiedere ai torturatori di ripetere i loro crimini davanti alla macchina da presa, così almeno avrebbero saputo come erano morti i loro cari». Tra le tante riprese, Adi viene a scoprire come è stato trucidato il fratello e chiede di incontrare i responsabili (l'intera intervista è su cristinabattocletti.blog.ilsole24ore.com).

Ugualmente interessante, ma meno forte, Tales della regista iraniana Rakhshan Bani Etemad. Le sue microstorie, cucite assieme e collegate, regalano un affresco dell'Iran troppo carico. Prostituzione, emarginazione femminile, disoccupazione, miseria, droga: il tutto ci fornisce un ritratto nero dell'Iran, sicuramente veritiero, ma che avrebbe potuto essere diluito in diverse pellicole. La regista, molto nota nella sua patria ma poco in Italia, ha effettuato le riprese in cortometraggi, sotto il regime di Ahmadinejad, quando non si poteva girare un lungometraggio. È riuscita a metterli insieme solo oggi.

Deludente, invece, Xavier Beauvois con La rançon de la gloire, commedia agrodolce, di buoni sentimenti in cui due balordi emigrati, in condizioni di estrema indigenza, decidono di trafugare il cadavere di Charlie Chaplin per chiedere un riscatto. In mezzo a tutto questo un circo che vede Chiara Mastroianni nel ruolo di impresario. Troppi filoni, troppa lentezza, poche risate.

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