Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 31 agosto 2014 alle ore 13:45.

My24

A dire il vero, il percorso di questa bella mostra, intitolata «Da Giotto a Gentile da Fabriano», inizia con alcune opere che, per ragioni cronologiche o di stile, anticipano l'età giottesca. Mi riferisco a quelle adunate nella prima sala, al Crocifisso ligneo di Matelica, ancora romanico, o alla Croce trionfale del Maestro dei crocefissi francescani, che – se non erro – è chiamato anche Mastro dei crocefissi blu, per il colore cobalto del fondo. Sono tutte presenze locali, benché della superba croce trionfale, oggi in deposito a Camerino, non si conosca la collocazione anteriore all'acquisto da parte della famiglia Fornari, avvenuto nella metà dell'Ottocento, in seguito allo smobilizzo dei beni ecclesiastici, conseguente le soppressione napoleoniche, che nella Marche raggiunsero vertici furiosi. Che a proposito dei dipinti e delle sculture duecenteschi sia lecito parlare di un linguaggio stilistico autoctono, non è affatto scontato. Tuttavia gli affreschi strappati dalla chiesa fabrianese di Sant'Agostino, nel loro classicismo sin troppo fermo e nella loro caratterizzazione un po' rustica, sembrerebbero appartenere a una cultura indigena. Ed è proprio l'assunto di questa mostra – curata da Vittorio Sgarbi con Gampiero Donnini e Stafano Papetti, corredata da saggi in catalogo, oltre che dei suddetti, di Alberto Lenza, Giordana Benazzi, Elvio Lunghi, Alessandro Marchi e altri, e da rigorose schede critiche – il voler affrancare l'arte nelle Marche dallo stigma di essere, sostanzialmente, il risultato di un intreccio di influssi assisiati, riminesi e fiorentini. Nel rispetto di tale, più che legittima volontà di revisione esegetica, tesa ad affermare in primis la possibilità di una civiltà artistica fabrianese, ritengo indispensabile non limitare la visita all'epicentro espositivo della pinacoteca civica Bruno Molajoli, bensì a diramarla almeno nelle tre chiese che conservano affreschi trecenteschi, per lo più frammentari, ma restaurati con cura: San Venanzio, San Domenico e Sant'Agostino. Quivi giunti, tocca inerpicarsi su scalette di legno (scricchiolanti), che però consentono la visione ravvicinata degli affreschi, siti nelle zone presbiteriali e nelle sacrestie, che vennero salvate al tempo delle demolizioni, quando i mastodontici edifici di culto fabrianesi furono riadattati per accogliere la crescente comunità dei fedeli, in un arco temporale compreso tra il XVI e il XIX secolo.
Negli affreschi in San Domenico e San Venanzio, è riconoscibile la mano di Allegretto Nuzi, pittore molto raffinato, si pensa nativo di Firenze, mentre più incerta è l'attribuzione a un maestro con nome e cognome del manto decorativo delle cappelle in Sant'Agostino, realizzato da una autore d'ispirazione palesemente giottesca. È questo anonimo pittore che concede ampio margine di attendibilità all'ipotesi di una tradizione pittorica indigena, contemporanea o addirittura preesistente all'ondata di rinnovamento giottesco che investì le Marche, specialmente per il tramite di Rimini, nel secondo decennio del Trecento. Influenze riminesi si colgono nel maestoso affresco con la Madonna e santi, proveniente dall'abbazia di Sant'Emiliano a Congiuntoli, che, sia per la magniloquente scansione volumetrica, sia per la bellissima ambientazione prospettica, entro la quale le figure s'innalzano statuarie, investe l'osservatore di un senso di regalità di derivazione giottesca, ma direi anche romana.
Veniamo al principale protagonista di questa mostra, forse più intrigante dello stesso Gentile, cui – non dimentichiamo – fu dedicata una rassegna monografica nel 2006, curata da Laura Laureati e Francesca Mochi Onori: il Maestro di Campodonico. Genio anonimo, pur non essendo una novità assoluta nella galassia dei pittori italiani del Trecento, è qui rappresentato da una serie di affreschi veramente cospicua e di straordinario impatto: l'Annunciazione proveniente dall'antica chiesa fabrianese della Maddalena, la Crocefissione, Annunciazione e Flagellazione, già nell'abbazia di San Biagio in Caprile, i Santi Caterina d'Alessandria di Castel Rubello. Oltre a tali lacerti, in difforme stato di conservazione, del Maestro di Campodonico è rimasto poco. Il suo straordinario talento non è sfuggito ai maggiori storici dell'arte medievale italiana, da Pietro Toesca a Federico Zeri, che di lui scrisse un saggio esemplare nel 1963. Longhi aveva definito la Crocefissione «uno dei più grandi capolavori del secolo». Berenson, invece, era incorso in uno dei suoi paradossali abbagli, che comunque non ne diminuiscono l'autorevolezza, né riducono l'acume.
Nello stile dell'ignoto genio di Campodonico, forse fabrianese, spiccano un'energia espressionistica che sconfina nel teatro sacro, unita a «effetti spaziali» degni di Giotto, una potenza di rilievo, un disegno nervoso, «un contornare energico e tortuoso», che discendono più da Siena e da Pietro Lorenzetti che da Firenze. Dato il carattere aspro dei volti, gli affreschi del Maestro di Campodonico hanno sbrigliato letture e interpretazioni al limite del letterario. Ecco come Zeri commenta il San Giovanni Battista di Castel Rubello: «l'accentuazione plastica e la strapotente vitalità vi si mostrano ormai declinate secondo un caratterismo tipologico, che conferisce al Battista un aspetto aggressivo, quasi animalesco, dove (a contrasto dei piedi che afferrano il terreno, più che poggiarvisi sopra) i riccioli della capigliatura e del vello ubbidiscono ad una rimatura che fa parte di una lingua pienamente gotica». Non vi è nulla di simile, per violenza icastica, nell'arte del Trecento italiano, sì che, al di là delle parole e della scarsa notorietà presso il pubblico grosso, il Maestro di Campodonico brilla come l'astro più fulgido del tratto dell'arte che si estende da Giotto a Gentile da Fabriano.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi