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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 31 agosto 2014 alle ore 13:45.

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A 80 anni di distanza, coloro che tentarono una qualche forma di modus vivendi con il regime nazista, in Germania e all'estero, sono ormai perdonati. Alla fine della guerra ci furono casi di epurazione e di condanna. Qualche anno fa quando emerse che Günter Grass si era arruolato giovanissimo nelle file delle SS, dopo le prime denunce morali, la vicenda fu giudicata dai più con indulgenza. Eppure, stupisce apprendere che negli anni 30 l'industria cinematografica americana accettò di modellare i propri film secondo i voleri dei censori nazisti.
In un libro intelligente e minuzioso, The Collaboration, lo storico americano Ben Urwand racconta il rapporto ambiguo che le grandi case cinematografiche, guidate per lo più da impresari di origine ebraica, coltivarono con il regime nazista, soprattutto prima dello scoppio della guerra. Meraviglia scoprire che l'ufficio berlinese della Twentieth Century-Fox terminava le sue lettere al governo tedesco nel 1938 con un «Heil Hitler»; o che Mgm, nell'impossibilità di rimpatriare i profitti tedeschi, investiva gli utili in società produttrici di armamenti.
All Quiet on the Western Front, basato sul romanzo di Erich Maria Remarque fu oggetto di tagli profondi perché troppo pacifista. Lo stesso avvenne per Three Comrades. Un film con Henry Fonda, Personal History, raccontava delle sofferenze degli ebrei in Europa. Fu bloccato nel 1938; ripreso due anni dopo ma senza che mai si riferisse al dramma ebraico. Sempre nel 1938, The Road Back fu modificato in 21 punti e oggetto di 60 lettere di protesta da parte del console tedesco a Los Angeles, Georg Gyssling. In origine, il film criticava l'avvento del militarismo in Germania.
Ai tempi, Hollywood godeva tra i tedeschi di uno straordinario successo popolare. Negli anni 30, le case produttrici proiettavano nel Paese tra venti e sessanta nuovi film all'anno. Il libro di Urwand smentisce il luogo comune di una Hollywood votata alla lotta contro il male, lancia in resta a favore della libertà e della democrazia. Come Ibm o General Motors, anche le società cinematografiche misero i profitti in cima alle loro preoccupazioni, acconsentendo all'intervento del censore nazista e accettando che Gyssling potesse visionare in anticipo i lungometraggi.
Adolf Hitler amava i film americani. Ogni sera assisteva nella sua personale sala cinematografica, alla Cancelleria della Wilhelmstrasse o nella residenza di Berchtesgaden, alla visione di un film. Il dittatore, lo stesso uomo che volle la soluzione finale e scatenò una guerra sanguinosa, era un patito di Greta Garbo, di Mickey Mouse, e di Laurel & Hardy. Sapeva del l'influenza che i film potevano esercitare sulla pubblica opinione. Mentre Leni Riefenstahl filmava le riunioni di partito a Norimberga, i censori nazisti ottenevano dalle case americane di ritoccare immagini e dialoghi. La censura tedesca esisteva anche ai tempi della Repubblica di Weimar. Fin dal 1925 furono imposti limiti all'importazione. Il divieto fu irrigidito ulteriormente tre anni dopo. Dal 1932, prima dell'avvento del nazismo, le case produttrici di film ritenuti anti-tedeschi potevano subire il divieto di importare in Germania. In questo contesto, i produttori americani – molti a sorpresa erano di origine ebraica come Louis Mayer (Mgm), William Fox (Fox), Adolph Zukor (Paramount), Harry Cohn (Columbia), Carl Laemmle (Universal) – si piegarono alle richieste tedesche.
D'altro canto, Hollywood ha da sempre legami controversi con la politica. Ogni quattro anni attori o registi fanno campagna elettorale per un candidato alla Casa Bianca, o per l'altro. Walt Disney non nascondeva la sua ferocia anticomunista. I boicottaggi poi non mancano. Salvador, il film nel quale Oliver Stone attacca la politica americana nel Paese centramericano, fu finanziato nel 1986 da inglesi e messicani. Più recentemente, nel 2004, il documentario critico della presidenza di George W. Bush, Fahrenheit 9/11, di Michael Moore, fu boicottato da molte case cinematografiche. Nel suo libro, Urwand svela con dettagli precisi l'incredibile relazione tra Hollywood e Berlino. Tralascia forse di insistere che, nonostante tutto, alcuni piccoli produttori americani non esitarono a ignorare le istruzioni tedesche. E soprattutto che durante il conflitto le case produttrici cambiarono in parte registro, abbandonando la condiscendenza nei confronti dei nazisti e diventando il braccio culturale degli Stati Uniti nella sua guerra contro la Germania (e poi contro l'Urss). Per anni, tuttavia, preferirono evitare di parlare esplicitamente dell'Olocausto.
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Ben Urwand, The Collaboration - Hollywood's Pact with Hitler, Belknap Harvard, Cambridge, pagg. 328, $ 24,30

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