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Questo articolo è stato pubblicato il 31 agosto 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 31 agosto 2014 alle ore 13:45.

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È una banalità ricordare che, nel corso del Novecento, le posizioni liberali sono state fortemente minoritarie. Per tutto il secolo, per rubare le parole al Walter Lippman del 1937, «quasi ovunque la caratteristica del progressista è che egli, in ultima analisi, per migliorare le condizioni degli uomini confida in un aumento del potere dei funzionari pubblici». Non sono bastate due guerre mondiali, il lager, il gulag, per instillare un terrore del «niente-al-di-fuori-dello-Stato» più vivo che quello per il suo contrario. Friedrich von Hayek aveva sempre cura di spiegare che «il vero liberalismo non è il laissez-faire». Il nome di Milton Friedman è tutt'oggi un drappo rosso sventolato sotto gli occhi delle sinistre di tutto il globo, ma, con la sua «imposta negativa sul reddito», egli proponeva qualcosa di non troppo diverso dal «reddito di cittadinanza». James Buchanan era favorevole a imposte di successione pressoché confiscatorie.
Lo Stato «guardiano notturno» esce davvero dalle catacombe solo in un libro di quarant'anni fa, opera non di un economista ma di un filosofo. È la più celebre delle risposte a Una teoria della giustizia di John Rawls, che dal 1971 troneggia sul dibattito filosofico-politico dell'Occidente. Anarchia, Stato e Utopia di Robert Nozick, collega più giovane di Rawls, entrambi di Harvard, è un saggio tripartito. Nella prima parte, Nozick fornisce la sua spiegazione «a mano invisibile» della nascita dello Stato, un esercizio intellettuale che ne immagina l'insorgenza in assenza di violazione dei diritti individuali: ipotesi che ha nulla a che fare con la storicità dello Stato moderno, ma serve all'autore per confrontarsi con i suoi veri punti di riferimento. Si tratta di autori misconosciuti, che però fanno al filosofo di Harvard un'impressione profonda: sono i «libertari» americani, dalla romanziera Ayn Rand, anch'essa fautrice di uno Stato minimo, a Murray Newton Rothbard, economista e storico delle idee, allievo dell'austriaco Ludwig von Mises. Nozick ne aveva fatto la conoscenza occupandosi del tema della coercizione, al centro del suo primo lavoro pubblicato (nel 1969).
Il punto di partenza di Rothbard è quello di John Locke, ma, avendo dalla sua l'esperienza di un paio di secoli, egli ritiene che uscire dallo «stato di natura» affidando a un monopolista della violenza la tutela dei diritti individuali sia un errore logico. Questi ultimi vengono messi a repentaglio proprio dalla natura monopolistica del loro presunto guardiano: che non a caso finisce puntualmente per esondare qualsiasi argine, di natura costituzionale o meno, dovrebbe circoscriverne l'attività.
Nozick s'affanna a rispondere ai nuovi «anarchici di mercato», senza riuscire a persuaderli. Il primo numero del «Journal of Libertarian Studies», nel 1977, sarà dedicato a una spietata vivisezione del capolavoro nozickiano, accusato di tentare «l'immacolata concezione dello Stato». Se la prima parte di Anarchia, Stato e Utopia vorrebbe smentirli, la seconda ne lancia le idee nel dibattito. È qui che Nozick prende di petto il collega Rawls, caricandosi sulle spalle le riflessioni di Hayek sulla giustizia sociale ma anche autori dimenticati, come Herbert Spencer di cui riprende la «parabola dello schiavo», per spiegare che la tassazione può essere considerata alla stregua del lavoro forzato. Nozick aggiunge tutto il suo genio filosofico, e riesce a portare un attacco potente a Rawls. Le sue ragioni sono quelle di un liberalismo incardinato sull'idea dei diritti naturali: «gli individui hanno diritti», con questa secca dichiarazione incomincia Anarchia, Stato, Utopia. Per questo, «lo stato minimo è lo stato più esteso che possa essere giustificato. Qualsiasi stato più esteso viola i diritti delle persone».
Le persone, per stare assieme, «scambiano», si cedono beni e servizi in cambio di denaro. «In una società libera, persone diverse controllano risorse differenti, e nuovi possessi sorgono dagli scambi e dalle azioni volontarie delle persone». Questa serie di scambi però non determina una «distribuzione», nel senso che non c'è nessuno che "distribuisca", un Babbo Natale che dal sacco estragga i doni per i bambini buoni e il carbone per quelli cattivi. «Non c'è attività distributiva o una distribuzione di beni più di quanto ci sia una distribuzione di partner in una società in cui sono le persone a scegliere chi sposare».
È per questa via che Nozick riesce a spiegare che «la libertà sconvolge i modelli». Se le persone sono libere di scambiare, le risorse passeranno di mano, nella misura in cui alcuni di loro dimostrano di essere in grado di soddisfare le preferenze di altri. Ma allora non c'è modo di «redistribuire» le risorse se non facendolo costantemente, il gioco economico non è una gara con una linea di partenza e una d'arrivo, e del resto non si capirebbe bene chi parte e chi taglia il traguardo (un individuo? un'impresa?). Se vogliamo «redistribuire», non basta mettere mano alle regole costituzionali: bisogna accettare interventi continui, incompatibili con la libertà di scambiare con chi vogliamo ciò che vogliamo, che è poi la libertà di condurre la nostra vita come ci piace. Solo una società di persone che scambiano, protetta da uno Stato che ne tutela i diritti individuali, può essere la cornice appropriata per perseguire «l'utopia», progetti e stili di vita dissonanti da quelli dei più: questo il tema della terza parte del capolavoro di Nozick.

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