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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2014 alle ore 08:15.
Non si dà architettura senza consapevolezza storica, senza etica, senza impegno sociale: questa Biennale ce lo ricorda efficacemente. Troppi architetti, invece, «si rifugiano in una artisticità che li esclude da qualunque responsabilità» (Franco la Cecla, Contro l'architettura, Bollati Boringhieri 2008). Icona dell'architetto responsabile è ormai l'italiana Lina Bo Bardi, attiva in Brasile dal 1946 alla morte (1992). Battendosi in favore di una «coscienza collettiva dell'architettura» in cui la libertà dell'architetto «è soprattutto un problema sociale, che va visto dall'interno delle strutture politiche, e non dall'esterno», Lina Bo Bardi criticava ogni deriva estetizzante: «L'architettura può essere soffocata dalle forme, dalle composizioni, dall'aura di monumentalità. Gli architetti devono mettere al primo posto non il proprio individualismo formalizzante, ma il desiderio di rendersi utili alla gente. Non dev'essere forse oggi, l'architetto, un combattente attivo nel campo della giustizia sociale? Non deve alimentare in sé il dubbio morale, la coscienza dell'ingiustizia, un sentimento acuto di responsabilità collettiva, e dunque il desiderio di lottare per conseguire un fine moralmente positivo?». Una monografia ha tracciato recentemente vita e pensiero di Lina Bo Bardi (Z. de A. Lima, Lina Bo Bardi, 2013); ma le parole a lei dedicate dal critico americano Martin Filler possono servire come commento alla tensione etica e politica di cui questa Biennale mostra il segno: «l'architettura può esercitare un effetto vivificante e unificante solo quando la necessità di una vita sociale migliore è genuinamente importante per l'immaginazione dell'architetto».
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