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Questo articolo è stato pubblicato il 07 settembre 2014 alle ore 08:16.

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«Avviciniamoci al fuoco, per vedere meglio quello che stiamo dicendo»: è una locuzione tradizionale, ancora viva fra gli abitanti delle isole Fernando Poo quando Cecil Kay Ogden e Ivor Armstrong Richards la raccolsero e la citarono nel loro libro indimenticabile e oggi introvabile, The Meaning of Meaning. Luigi Garbini, sacerdote, studioso di liturgia, benemerito promotore di ciò che vale fra quanto l'autorità ecclesiastica milanese fa sul terreno della musica, già autore di una magistrale Breve storia della musica sacra (2005), sembra esortarci al contrario, e suggerirci di chiudere gli occhi e di spegnere la luce per udire meglio ciò che si ascolta. Tuttavia, se questo è il tema insidioso del nuovo libro di Garbini, il lettore si accorge presto dell'esistenza di un controtema: "il paradosso del parlar di musica", di un'azione che vorrebbe legittimare e illuminare la musica e quanto più ne parla e la analizza, tanto più addensa sulle nostre certezze l'oscurità e il disordine. Così "lo scrittore diventa un profanatore del silenzio che guarda alla musica come Doppelgänger della scrittura", e perciò accade che, non appena fissiamo un pensiero suscitato dall'ascolto, immediatamente ne percepiamo la parzialità, la vacuità, e soprattutto il bisogno di tornare alla musica. La letteratura, osserva Garbini, «lascia sul terreno dei "precipitati", solidificazioni di una soluzione immateriale come la musica». Così, mentre crediamo di conoscere e capire la musica, erigiamo un muro che la soffoca e la involge in qualcosa di deformante, di ovattato e di oscuro. L'autore indaga l'oscurità. Prediligendo una propria rotta, adatta alla navigazione nel buio, Garbini si costruisce un percorso. La rotta, egli osserva, «è stata tracciata in modo definitivo da Samuel Beckett, e, accanto a lui, da robusti ausiliari come Winfried G. Sebald, Imre Kertész, Marguerite Duras, Ingeborg Bachmann, Bret Easton Ellis, E. L. Doctorow, Teju Cole». I "precipitati" cui allude Garbini sono essenzialmente dilemmi, aporie, anche essenziali labirinti. Non sapremo mai se sia meglio abbandonarsi o resistere alla musica. Fingiamo di non sapere che cediamo vergognosamente alla menzogna, poiché crediamo o vogliamo credere che la musica registrata sia veramente musica, e abbia qualcosa a che fare con la musica autentica. Talvolta, capovolgendo l'errore o forse osservandolo allo specchio, disprezziamo la musica vera, quella che esiste comunque, né ripulita né addomesticata dalla riproduzione. Di conseguenza, può essere patetico ammirare un'esecuzione dilettantesca ma "fatta in casa", può essere imperdonabilmente "nazional-popolare" chi adora una musica soltanto poiché essa ci ricorda una persona cara che un tempo la suonava, e, per ripetere le parole di Proust, «la visione più bella che ci rimane di un'opera è spesso quella levatasi sopra le note false, tratte da dita inabili, di un pianoforte scordato».
Ma, al di sotto del coacervo di aporie e di contraddizioni in termini, si rivela gradualmente come nucleo del singolare libro un pensiero fondamentale: la musica non è qualcosa che "accade nel mondo", bensì uno strano buio che contiene il mondo e lo rende attivo, e rendendolo tale lo fa esistere. Ciò che è nella musica determina il corso delle cose, e non vale l'inverso. Così Samuel Beckett, commentando il fatto per cui «Beethoven ha cambiato il modo di ascoltare Mozart», fissa in modo lapidario la differenza tra Mozart e Beethoven; è la «distanza tra un panorama perfettamente intelligibile e totalmente inesplicabile, e un universo invece indivisibile».
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Luigi Garbini, Al buio si ascolta meglio, Unicopli, Milano, 2014,
pagg. 130, € 10,00.

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