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Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2014 alle ore 08:15.

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Si entra, ancora abbagliati dalla luce splendente delle Zattere, con la gran distesa d'acqua del canale della Giudecca scintillante di mille pagliuzze di sole, e ci si trova in una specie di antro profondo e scuro di cui sul principio non si distingue nemmeno il fondo. Poi, lentamente, si materializza la ruvida tessitura dei mattoni alle pareti, ritmati dai contrafforti e incrostati da grumi secolari di sale, e prende forma la carpenteria potente del tetto, mentre si indovina la gabbia metallica che, molti metri oltre, conserva ben ordinate decine di opere di Emilio Vedova.
Siamo nei Magazzini del Sale della Serenissima. E fu proprio Vedova, negli anni Settanta, a salvare dallo sventramento già deliberato dal Consiglio comunale i nove meravigliosi «Saloni» dei Magazzini, costruiti nel tardo Trecento per conservare il sale – «il petrolio della Repubblica veneta!», tuonava lui – e minuziosamente documentati dalla celebre pianta cinquecentesca di Jacopo de' Barbari, che stavano per essere sacrificati alla costruzione di tre piscine.
Vedova, che alle Zattere viveva e aveva lo studio, mobilitò una folla in difesa di quell'antica architettura industriale e la salvò, guadagnandosi la riconoscenza della città, che molti anni dopo gli avrebbe assegnato uno dei Saloni per ospitare lo spazio espositivo della Fondazione intitolata a lui e alla moglie Annabianca, da subito presieduta dall'avvocato e amico di una vita Alfredo Bianchini. Per il restauro chiamò Renzo Piano, che ideò il pavimento in legno in leggera salita, pensato per ospitare gli impianti tecnologici ma capace al contempo di accentuare ulteriormente la profondità prospettica dello spazio, e con Maurizio Milan diede vita alla straordinaria macchina (un marchingegno dall'apparenza leonardesca ma dotato di un'anima robotica sofisticatissima) che è insieme deposito e motore di nuclei sempre diversi delle sue opere conferite alla Fondazione.
E che oggi, insieme ai dipinti, è la protagonista della mostra «Vedova in tondo», curata da Fondazione Germano Celant e Fabrizio Gazzarri, direttore scientifico della Fondazione il primo, direttore della collezione e a lungo assistente di Vedova il secondo.
Come questa macchina possa essere protagonista della mostra è presto detto. La rassegna è composta da due sezioni, una statica, con cinque grandi Tondi del 1985-1987 esposti a parete e il Disco (bifrontale, al centro dello spazio) Non dove, '86-I (23-1-86), dipinto da Vedova appena appresa la notizia della morte di Joseph Beuys. L'altra sezione, che interagisce strettamente con la prima, è formata da tre serie di suoi dipinti, gli Oltre, quei tondi inseriti in un quadrato dove la pittura deborda impetuosa, e i teleri delle serie Compresenze, 1981, e Di umano, 1984-1985, tutti mossi nello spazio da quella macchina robotica, che con le sue dieci navette preleva altrettante opere dalle rastrelliere del magazzino, le alza e le conduce, in una sorta di danza, lungo il binario che corre sotto le capriate, per poi ricollocarle una a una al loro posto, mentre altre iniziano il loro viaggio. Una danza, si diceva, perché il movimento, comandato da un software sofisticato, è guidato da una "coreografia" ideata da Celant, che ha deciso la sequenza, i tempi, le evoluzioni, le soste con cui i dipinti si muovono nello spazio. E non a caso per l'inaugurazione è stato chiamato il pianista Stefano Bollani (il video è in mostra), che ha interpretato con improvvisazioni musicali i lavori in mostra di Vedova.
Scomparso nel 2006, Vedova non fece in tempo a vedere realizzato questo marchingegno ma ne discusse con Piano. Che seppe genialmente tradurre in realtà il bisogno del maestro di andare con la sua arte «nello spazio e fra la gente». Ricorda Alfredo Bianchini che Vedova voleva che le sue opere «camminassero», e questa mostra più che mai lo asseconda.
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Vedova in tondo, Venezia, Fondazione Emilio e Annabianca Vedova, fino al 2 novembre

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