Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 14 settembre 2014 alle ore 08:15.

My24

Ho sentito di recente alla radio una trasmissione in ricordo di Gabriella Ferri, la talentosa, fascinosa e trascinante cantante romana scomparsa dieci anni fa. Fra i tanti doverosi incensi che si spargevano per lei, ce n'era uno con un profumo strano, che mi lasciava un po' perplesso. I molti personaggi illustri che tessevano le lodi della Ferri ricorrevano spesso al seguente argomento: «una grande artista, che ha trasformato una canzone comica come Dove sta Zazà in un brano drammatico». E questo ovviamente veniva detto come se si trattasse indiscutibilmente di un complimento, come se la trasformazione di un'opera comica in una drammatica fosse una nobilitazione, una promozione. Concetto simile avevo letto tempo fa in un'intervista al regista Luca Ronconi il quale, parlando del Barbiere di Siviglia di Rossini, lo descriveva come un'opera solo apparentemente comica, una commedia umoristica solo per chi superficialmente si ferma alle apparenze. Da questo assunto anche il Barbiere rossiniano, come Zazà, risulterebbe promosso di grado se trasformato in opera drammatica. E da questa svalutazione del genere comico mi sembra che discendano tanti diffusi luoghi comuni del tipo: «fa ridere, ma fa pensare» o «si ride, ma si ride amaro» o «Totò era sì un comico, ma con un fondo tragico malinconico»: applauso!
La presunta superiorità del tragico sul comico nasce forse da quello che Alberto Savinio definiva il «dolorismo» della cultura italica. Ma per me è difficile capire la superiorità dei Pagliacci di Mascagni sul Don Pasquale di Donizetti, de La fiaccola sotto il moggio di D'Annunzio su Uomo e galantuomo di Eduardo, dell'Eclisse di Antonioni su I soliti ignoti di Monicelli. Questi termini di giudizio mi istigano a enunciati paradossali e goliardici, del tipo «Amleto è, sì, una tragedia drammatica, ma solo per chi si ferma a una lettura superficiale: in realtà si tratti di opera buffa, farsesca»; oppure «Walkiria a ben guardare è operetta da avanspettacolo». O anche si potrebbe disquisire sulla crisi di identità di Lilí Kangy («Chi me piglia pe' frangesa, chi me piglia pe' spagnola…»). L'interpretazione dammatizzante che la Ferri dette di Zazà fece scuola, ed oggi, fra gli artisti napoletani, è diffusa l'abitudine di «rileggere» certi titoli del loro grande repertorio brillante con toni stilisticamente dolorosi. Se non ricordo male, non se l'è scampata neanche il povero Ciccio Formaggio, macchietta inarrivabile di Cioffi-Pisano. Da parte mia continuo a ritenere Dove sta Zazà un'operina di geniale e surreale comicità, ammirevole proprio perché traboccante di creatività comica, e che non ha bisogno di promozioni. La scrisse il paroliere Raffaele Cutolo nel 1942, e la musicò magistralmente il maestro Giuseppe Cioffi nel 1944, in un'Italia in piena devastazione per la tragedia bellica in corso.
Narra di un tale che va con la sua bella Zazà alla festa di San Gennaro, fra canti e suoni, dove il maestro della banda di Pignataro – un paesino in provincia di Caserta – esegue, pensate un po', il Parsifal wagneriano (qui chiamato «Parsifallo», che fa rima col piedistallo). In quella confusione la sua bella gli sparisce tra la folla («Se fumarono a Zazà»). La storia è raccontata in prima persona, e all'inizio del refrain veniamo informati che il nostro, l'io narrante, si chiama Isaia («come fa Zazà senza Isaia?»). Il nome, secondo me, è stato scelto dagli autori per poter giocare subito dopo sull'allitterazione «Isaia-sta-ccà / Isaia-sta-ccà / Isaia-sta-ccà», (Isaia sta qua). L'inciso ripete poi a mitraglia la sillaba Za za za za za za za za… E fin qui, come si vede, possibili letture drammatiche sono difficili da trovare.
Se poi ci fosse rimasto qualche dubbio, c'è la seconda strofa, nella quale lo stesso Isaia ci informa che l'anno appresso torna alla festa di San Gennaro senza aver ancora trovato la sua Zazà e, in quattro memorabili versi, ci dice con cinica rassegnazione «se non troverò / lei che è tanto bella / m'accontenterò / de trovà 'a sorella». Capito il dramma?
Si racconta che nel 1947, quando Alcide De Gasperi andò a incontrare il presidente Usa Harry Truman, sceso all'aeroporto di Washington, la banda militare americana lo accolse intonando Dove sta Zazà, chissà per quale equivoco. L'inno di Mameli ancora non era stato ufficializzato come inno nazionale, e forse le note di quel refrain per i nostri alleati identificavano provvisoriamente l'idea di italianità.
Fra tutte le interpretazioni che ho ascoltato di questa canzonetta – che lo stesso Cutolo definiva «una cretinata come tutte le altre mie canzoni» – e che fu portata al successo dal prodigioso macchiettista Nino Taranto, la più coerente e affascinante resta per me quella di Roberto Murolo, il quale, grazie al cielo, non ne intravvide i risvolti drammatici e doloristici. La sua esecuzione semplice e ironica, filologicamente ineccepibile, è quella che più amo, ferma restando tutta la mia affettuosa ammirazione per Gabriella Ferri e il commosso rispetto per la sua vita privata, quella sì tragica, senza risvolti. E senza lieto fine.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi