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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2014 alle ore 14:14.
L'ultima modifica è del 15 settembre 2014 alle ore 14:14.

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Proseguendo un percorso tematico incentrato sulla menzogna di cui fanno parte, come a formare un unico spettacolo, "Die Wohlgesinnten" tratto dalle "Benevole" di Jonathan Littel; "Peer Gynt" di Ibsen; e "Servitore di due padroni" dall'Arlecchino di Goldoni, Antonio Latella condensa ora l'assunto in un unico personaggio, Adolf Hitler, e in un solo attore, Francesco Manetti. "A.H." sono le iniziali del dittatore e il titolo dello spettacolo, per una riflessione sul male, sulle sue origini nel cuore dell'uomo, sul suo perpetuarsi e riprodursi.

Lontano dalla trappola di raffigurarlo con la cifra del grottesco e della caratterizzazione, ma utilizzando chiavi espressive diverse secondo un processo creativo di smontaggio e di montaggio che caratterizzano il suo teatro, Latella costruisce, con l'apporto drammaturgico del fedelissimo Federico Bellini, una potente partitura fisica e testuale, quasi filosofica, della quale Manetti si fa carico (il quale, va precisato, non è propriamente un attore ma un coach e trainer della compagnia Stabilemobile). La sua è una performance squassante sulla quale, procedendo per sovrapposizioni, intreccia movimenti, citazioni testuali e riferimenti letterari, suoni e immagini, che rimandano a fonti diverse. Dalla Bibbia, alla Torah, a Tolkien; da Brecht a Chaplin; da Heiner Müller a Collodi; con in mezzo sonorità tra cui l'inconfondibile voce di Demetrio Stratos in una brano da un album storico "Arbeit macht frei", e in chiusura "Hitler in my heart" cantata da Antony and the Johnsons.

Non c'è un filo rosso nello spettacolo, ma schegge che inventano e concertano una tessitura - pur con dei momenti eccessivamente cerebrali - della quale solo alla fine vediamo il disegno ordito. Che su ciascun spettatore produce effetti differenti. Com'è giusto che sia.
Manetti entra in scena con un elegante vestito bianco, tutto di carta. Sul palco spoglio solo un manichino da pittore e due secchi agli angoli. Sorride guardando gli spettatori, e subito si accende in un'oratoria con modi da conferenziere snocciolando la Torah e le Sacre Scritture, che ci riporta alla cosmogonia col suo linguaggio mitico sulla creazione del mondo, alla ricerca dell'origine della parola menzogna e verità, per poi dipingere la seconda lettera dell'alfabeto ebraico su un grande foglio bianco. Strappato dalla parete frontale, quale gesto poetico d'artista, lo piegherà e spezzetterà in mille pezzi raccogliendoli dentro una stoffa nera per lanciarli in aria gridando: 5.820.960, ovvero il numero delle vittime dei lager.

Dirà anche il numero dei morti della Prima Guerra mondiale; sproloquierà di razze superiori, e reciterà una sorta di paternoster pronunciato da giovani tedeschi verso il Führer. E intanto, a dargli sembianza, con le mani giunte in preghiera recitando "Ich bin" ricorderà la scultura di Cattelan, mentre con della Nutella spalmata in fronte darà forma ai capelli, e con due dita posterà i baffetti sotto il naso. Consumate le parole – altre ne seguiranno frammentandole in fonemi, o in loop – sarà soprattutto il suo corpo a comunicare, a dire, a evocare immagini e sequenze attraverso posture, gesti, alterazioni mimiche del viso, strabuzzamenti degli occhi, che ricordano, ma senza farsi imitazione, il Führer.

Ed è portentoso il trasformarsi mimico in cane, con la lingua di fuori, da affamato, riprendendo l'interpretazione di un attore tedesco nell'"Arturo Ui", al quale Heiner Müller chiese di impersonare Hitler senza descriverlo. Nel concitato procedere per accumulo trova posto una sequenza estenuante che varrebbe, insieme a quella finale, l'intero spettacolo. Ed è quella in cui il performer ci fa percepire la guerra e la sua storia attraverso l'evoluzione delle armi, ma senza oggetti in mano. Prima elenca le varie armi da belligeranza, accompagnandole col gesto arrogante di chi le manovra; poi imitandone il rumore, quindi in silenzio mimando l'effetto devastante che produce e la caduta mortale sulla vittima.

Parole e gesti che si fanno squassante danza. Accostandosi al burattino a terra, mentre s'odono canzonette infantili, sarà Geppetto e poi Pinocchio assumendo le pose del fantoccio di legno, trasformando l'asta in mano in naso e subito dopo in bacchetta da direttore d'orchestra mentre dirige un suono allarmante di sirene mescolate all'inno europeo e alle parole di Müller "io ero Europa, io sarò, io sarò stato, io fui stato Europa". E finisce con un grido: "Padre, perché ci hai abbandonato?", seguito dopo un pianto mentre pronuncia la parola "papà". Strappato l'abito e denudatosi, adagiandosi lentamente a terra, braccia aperte da Crocifisso e movenze da danza Butho, cospargendosi di polvere bianca provocando così una coltre di fumo dalla quale emerge come un sopravvissuto, sulle note della canzone di Antony and the Johnsons, Manetti ci lascia questa domanda. Che è quella di Cristo in croce che prende su di sé tutto il dolore del mondo.

"A.H.", drammaturgia Federico Bellini e Antonio Latella, regia Antonio Latella, con Francesco Manetti, elementi scenici e costumi Graziella Pepe, luci Simone De Angelis, produzione stabilemobile - compagnia Antonio Latella, in coproduzione con Centrale Fies, in collaborazione con KanterStrasse/Valdarno Culture. A Roma, festival Short Theatre 2014. Quindi a Mosca "Solo Festival Na Strastnom" il 7 ottobre. In tournée a febbraio e marzo 2015.

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