Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 25 settembre 2014 alle ore 08:14.
L'ultima modifica è del 25 settembre 2014 alle ore 08:14.

My24

In un racconto di J. M. Coetzee l'ineffabile alter ego dell'autore, la scrittrice Elizabeth Costello, viene chiamata a dire la sua sul "problema del male" e, davanti a un collega che ha raccontato i campi di concentramento con eccessiva disinvoltura, si domanda se non sia pericoloso «scendere nei più oscuri territori dell'anima», se dire l'indicibile non sia soltanto un peccato di hybris ma anche di vanità, da cui non si esce indenni. «Osceni: non solo gli atti dei carnefici di Hitler, non solo gli atti del boia, ma anche le pagine del libro (…). Scene che non possono reggere la luce del sole, dalle quali bisognerebbe difendere gli occhi delle fanciulle e dei bambini».

È un tema che riecheggia quello più ampio scaturito dalle pagine di Se questo è un uomo. Primo Levi, assetato, allunga una mano fuori dalla baracca per staccare un ghiacciolo e una guardia glielo strappa di mano. «Perché?», gli chiede. «Qui non c'è un perché», risponde quello. Se il discorso intorno al Male nazista (o al "mistero Hitler", com'è stato intitolato in Italia un magnifico studio di Ron Rosenbaum sull'intera questione) resta un quesito irrisolvibile per chi è sopravvissuto ai campi, maggiori dubbi suscita negli scrittori che vi si avventurano soltanto grazie allo studio e all'immaginazione. Non a caso Vercors divise il suo racconto Le armi della notte, che racconta di un superstite dei campi di concentramento, in due parti denominate "Orfeo" e "Euridice": è dato girarsi e raccontare l'inferno? Non soltanto: è morale scegliere di inoltrarsi "in quelle tenebre", per citare il titolo di un celebre libro di Gitta Sereny sul comandante di Treblinka? E come va fatto?

Sebbene Martin Amis non sia certo il tipo di scrittore da temere questo tipo di sfida (aveva già affrontato il tema della Shoah ne La freccia del tempo, raccontando a ritroso la vita di un criminale di guerra), non c'è da stupirsi che al termine del nuovo e quattordicesimo romanzo, The Zone of Interest (Jonathan Cape, 320 pagine; Einaudi lo pubblicherà in italiano nell'autunno del 2015), abbia sentito il dovere di fornire in coda alla narrazione una postfazione esplicativa – o giustificativa – riguardo alle letture e agli spunti che l'hanno portato a scriverlo. La nota non è bastata a evitare le polemiche, tanto che il libro – banalizzato come «una storia d'amore ambientata in ufficio, dove l'ufficio è Auschwitz» – è stato clamorosamente rifiutato da ben due suoi editori storici, quello tedesco (Hanser) e quello francese (Gallimard, che pure pubblicò Le benevole): l'accusa è di essere poco convincente (a fronte, però, di ottime recensioni), o forse troppo frivolo riguardo a un tema così alto. Coda di paglia? Una scusa come un'altra? E davvero l'opera deve sempre innalzarsi per rendere meno imperscrutabile il Male?

Veniamo al libro. La zona in questione è un campo di lavoro e di sterminio chiamato "Kat Zet", ricalcato su Auschwitz. La storia è raccontata in sei capitoli, ognuno diviso in tre sezioni, raccontate da tre personaggi differenti. La voce principale è quella di Angelus "Golo" Thomsen, un grigio burocrate nipote di Martin Bormann che dirige la fabbrica adiacente al campo: donnaiolo impenitente, è attratto da Hannah, la moglie del comandante Paul Doll, ispirato alla figura di Rudolf Höss. Il controcanto è dato dallo stesso comandante Doll, un ubriacone sempre più disorientato dall'orrore e sospettoso nei confronti della moglie. Infine c'è la voce di Szmul – «l'uomo più triste del mondo», come si autodefinisce – un prigioniero ebreo che dietro un'atroce designazione (Sonderkommandoführer) comanda le famigerate squadre che accompagnano i condannati alla morte. Tra un cocktail danzante e una fossa comune, la storia – ambientata nell'agosto del 1942, nel momento fatidico in cui l'invasione della Russia appare destinata al fallimento e le sorti della guerra sembrano rovesciarsi a sfavore dei tedeschi – risulta tripartita da un lato in un romanzo torbidamente sensuale, dall'altro in un allucinato racconto screziato di humour nero e dall'altro ancora in un resoconto tormentoso che prova a raccontare l'abisso.

Quella delle tre voci narranti – che nella finzione avrebbero perfino la penna in mano: «Chissà perché sto scrivendo questa cosa, non è nel mio stile» – è una delle scelte più opinabili del libro, portata avanti costellando infelicemente la pagina di termini tedeschi. Se Amis con il dongiovanni si trova a suo agio e con il comandante procede sempre in bilico tra orrore e grottesco, scivolando a volte nel demenziale (ad esempio, quando la moglie si spoglia: «Vedevo bene i contorni del suo Bruste, la concavità del suo Bauchnabel e il triangolo del suo Geschlechtsorgane»), fallisce invece con il fulcro dolente del romanzo, perché la voce di Szmul finisce col sembrare quella di chi abbia già letto I sommersi e i salvati. Troppa consapevolezza.
Intendiamoci. Il libro è uno sforzo audacissimo di tenere insieme nero e rosa sull'orlo dell'abisso ed è contrassegnato da pagine straordinarie e notevoli trovate, come quella di riecheggiare la mania nazista per gli eufemismi, perenne rifugio degli aguzzini, non nominando mai Adolf Hitler. E basterebbe aver letto uno studio come Auschwitz di Sybille Steinbacher (Einaudi, 2005) per sapere che il campo era una vera e propria città. Sull'orlo del baratro, per fare un esempio, nacquero circa settecento bambini. Narrare ciò che stava intorno alle camere a gas non vuol dire peccare di superficialità. Scegliere di dare la voce a un carnefice o, peggio, a un mediocre carnefice capace di invaghirsi non equivale ad abdicare al proprio ruolo di scrittore.

Commenta la notizia

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi