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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2014 alle ore 11:14.

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Musica e lavoro non sembrano andare molto d'accordo. Nonostante passiamo almeno 40 ore a settimana in ufficio o in fabbrica – o preghiamo il fato di concedercelo, visti i tempi – la musica pop ha sempre parlato poco di tale condizione. A loro volta, i musicologi hanno la tendenza a occuparsi di essa come puro oggetto estetico, al di là dei modi e luoghi in cui viene fruita; mentre i sociologi del lavoro la considerano un fattore periferico, nella complessa alchimia del mondo impiegatizio.
A colmare questa «profonda e inquietante separazione» ci ha pensato Rhythms of Labor di Marek Korczynski, Mike Pickering e Emma Robertson. Il volume, pubblicato dalla Cambridge University Press l'anno scorso, si limita ai mestieri manuali in Gran Bretagna dal Diciottesimo secolo a oggi: ma fornisce strumenti utili anche per l'attualità. Il modo migliore per riassumerlo è quello di pensare a una griglia.

In verticale, tre categorie analitiche: la funzione della musica in senso extramusicale (la sua capacità di fornire un ritmo all'impiego e insieme creare uno spazio immaginativo), l'elemento comunitario (la tendenza a usare il "noi" nelle canzoni per creare un tessuto sociale), e la centralità della vocalità e del canto (non potendo usare altri strumenti).
Queste categorie sono immerse nel movimento orizzontale del tempo, e anche in questo caso i momenti cruciali del racconto sono tre: l'epoca pre-industriale, l'Ottocento e la seconda metà del secolo scorso.
Nella prima fase, gli autori sferrano una critica radicale all'immagine dell'artigiano felice che batte il tempo col piede mentre intaglia il legno. Si tratta di un luogo comune fortemente politicizzato, non lontano da quello del servo lieto di servire il padrone. Certo, il canto in quest'epoca è un elemento diffusissimo in ogni forma di cultura e tipo di lavoro; ma serve per esprimere ogni sorta di emozione – rabbia e stanchezza così come divertimento, o appartenenza a una comunità di tipo religioso, razziale o sessuale. Basti pensare ai canti delle donne scozzesi che follavano la lana, ai blues degli schiavi neri negli Stati Uniti, o agli shanties dei marinai inglesi, l'unico spazio dove scatenare la propria rabbia: non potevano farlo in forma scritta o parlata, ma potevano cantarlo.

Con l'arrivo dell'industrializzazione, le cose cambiano. Nelle grandi fabbriche dell'era moderna le canzoni tendono a essere proibite, sia per alimentare la produttività – qui si lavora, mica si canta! – sia per privare i lavoratori di uno altro mezzo di protesta e coesione. Alla musica si sostituiscono così i suoni metallici della fabbrica, benché proseguano delle culture sotterranee di canto collettivo.
Il terzo e ultimo momento è quello del ritorno della musica nei grandi spazi di lavoro collettivo: non più prodotta, però, bensì trasmessa e diffusa dall'alto. Da un lato questo ricrea un luogo minimo di sopravvivenza ed evasione agli impieghi sempre più grigi e alienanti («Ho bisogno della radio», dice l'operaio di una fabbrica di imposte americana: «proprio così, dannazione. Non potrei sopportare questo posto, senza»). Dall'altro, è quasi peggio del silenzio: la creazione spontanea di una comunità vocale viene rimossa per sempre, sostituita dal ritmo imposto dalla "radio aziendale".

Come si può notare anche da questi pochi esempi, un elemento affascinante di Rhythms of Labor è il suo approccio dialettico. Vediamo scontrarsi l'homo oeconomicus sottomesso al padrone e che piange la propria fatica contrapposto all'homo ludens che trova piacere nella creazione; lo spazio del possibile disegnato dal canto e quello tristemente attuale delle strutture abitudinarie; il controllo quasi foucaultiano operato dai padroni sui lavoratori tramite la musica indotta o il silenzio, e i modi in cui il canto libero cercava di rompere tali costrizioni e creare spazi di libertà al suo interno. E oggi? Che cosa resta di questa dialettica? Il ritmo collettivo sembra ormai scomparso, sia per l'impossibilità di gestirlo nei lavori intellettuali, sia perché la sua carica politica è andata dissolvendosi. Senza nostalgia o retorica, le cuffie dell'iPod alzate contro le chiacchiere d'ufficio sono comunque la morte di un fattore sociale per noi ormai del tutto ignoto. La musica ora resta confinata nel tempo libero, dove può vivere serenamente. Del resto, il tempo libero non ha molto bisogno di essere liberato.

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