Storia dell'articolo
Chiudi

Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 08:15.

My24

* * *
«L'interesse affettivo, per dir così, di famiglia, è per la cultura lombarda, soprattutto per le sue arti figurative; sono quelli i miei testi; non è una novità; io guardo i quadri assai più di quanto non legga. Mi sembrano sempre più materiati e meno facili a lasciarci adescare dalle chimere ideologizzanti». Non so se A.A. abbia capito la ragione per cui i dipinti, come gli disse Giovanni Testori, siano più restii a farsi adescare dall'ideologia: l'adescamento non dipende tanto dall'adescatore quanto dall'adescato e non credo che certi romanzi siano meno adescabili del Guernica. Anche Caravaggio è capro espiatorio di un certo tipo di lettori i quali preferiscono ignorare (o forse ignorano) che i mecenati del Caravaggio come il Cardinal del Monte o i Cavalieri di Malta non erano imparentati alle puttane o ai ragazzi di vita che si ritrovano nei quadri del grande milanese (che non era, ormai lo si sa, nato a Caravaggio). Ogni occhio vede quello che vuol vedere ed è in grado di renderlo sublime o tedioso, angelico o diabolico; ogni epoca sceglie la sua bellezza, forse la inventa; i valori classici sono pochi, spesso discutibili, confutati o dimenticati.
È singolare come molti gay siano spesso ossessionati dalla famiglia che cercano ovunque come sempre pensano alle donne, viste però come madonne, madri o sorelle. La loro sessualità diventa fonte di peccato. A.A. non si sofferma nel suo ritratto-intervista a Testori sulla fissazione dello scrittore e critico d'arte per secrezioni, liquidi amniotici, piaghe, sangue e ferite con qualche attenzione a pus o cancrena, quasi che le sostanze orride siano più serie di quelle delicate o vaporose. La leggerezza non è cosa da uomini, si direbbe. Anche nella pittura ottocentesca Testori insegue «l'allarme e la ribellione totale dell'uomo» e al Louvre ritorna sempre «al tragico connubio tra romanticismo e realismo» di Géricault, Delacroix e Courbet e di quello che egli chiama, chissà per quale motivo, «un grande dimenticato», Gros. «È strano – conclude Testori– non ci sono che i grandi pessimisti, quelli che vivono di fronte alla morte, per farci amare la vita; o per non farcela odiare troppo». Ci si fa adescare da quello che vogliamo forse senza volere; altri sceglierebbe Watteau, Rubens o Tiziano che non sembrano affatto vivere di fronte alla morte.
Testori (che vedevo molto spesso quando lavoravo a Milano sia nella Casa Editrice Feltrinelli, sia da Geo Poletti, il miglior conoscitore milanese della pittura italiana del Seicento) era un uomo di grande intelligenza e di aspetto affabile: i suoi occhi azzurri, traslucidi e purissimi sembravano di un candore commovente, quasi infantile. Faceva parte di una famiglia benestante di industriali o mercanti brianzoli e, dietro quell'aspetto così pio, si celavano bizzarre contraddizioni, un non comune senso del possesso e dell'ego, reso cupo da un terrore morboso della morte e da un rapporto malsano col peccato. Ma quando vedeva un quadro ben dipinto il volto cambiava espressione e gli occhi celesti scintillavano di incanto e cupidigia: erano gli unici momenti in cui mi sentivo in sintonia con lui. Solo allora sembrava un uomo sereno.
* * *
E per finire passiamo a uno dei più bei ritratti dell'intero volume, quello di Mario Praz. Per prima cosa A.A. ricorda (e non sono più molti a farlo) il bellissimo articolo di Edmund Wilson sul professore dove venne inventato l'aggettivo "prazzesco" vale a dire un miscuglio di macabro, di bizzarro, di grottesco e di incongruo. Ecco l'acuta definizione di Alberto: «vertiginose indagini, capillari e fredde, radenti, con serpentini raccordi, tra figure ed emblemi mai (apparentemente) abbastanza trascurati, ignorati, umbratili, eccentrici, fatiscenti, latenti, minori…ma l'inaudito accumulo dei motivi e pretesti finisce per culminare in sorprendenti pinnacoli, in trionfale spettacolo». A.A. esamina molte cose di Praz e su Praz: premia Wilson ma dileggia Frederic Prokosch che forse non andò mai in Via Giulia dal professore. Accenna, garbatamente, all'aura indiavolata che circondava M.P. (di questo ha parlato con grande arguzia Marc Fumaroli nella prefazione alla traduzione francese de Il mondo che ho visto): lo scritto di Fumaroli è memorabile come quello di Wilson e spiega bene l'eterna quarantena che circondava il nome del maestro. Così era: Maurizio Fagiolo, che pur l'amava, si vantava di aver scritto un articolo su di lui senza mai chiamarlo per nome.
È curioso capire come gli aneddoti restino simili ma non uguali: Alberto rammenta come nella cerimonia di addio al ritiro di Praz dall'Università di Roma una ragazza si alzò per consegnare al grande vecchio una pergamena e inciampò sullo scalino cadendo vistosamente. Qualcuno si levò pronunciando la fatidica frase: «Nessuno si muova, che il sacrificio si compia fino in fondo». A me è nota un'altra versione. Quella frase sarebbe stata invece pronunciata da Mario Praz dinanzi ai cadaveri di due o tre mucche stecchite vittime di un virus implacabile quando era in visita nella tenuta di Luigi Magnani: il sacrificio era quello delle mucche non di una vergine illibata. Inutile dire perché ci siamo soffermati su Praz fra gli storici dell'arte: ufficialmente non si pensa a lui subito sotto questa luce ma basta leggere La casa della vita per capire che il nostro amico si commuoveva più per mobili e quadri che qualunque essere umano, transitorio, volatile, inafferrabile.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

Ultimi di sezione

Shopping24

Dai nostri archivi