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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2014 alle ore 08:16.

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Ma non è grave. La vita ci dispensa altre gioie, più inattese, più stupefacenti. Ad esempio in autostrada, quando imbocchiamo un casello automatizzato e paghiamo il pedaggio infilando i soldi nell'apposito cassettino, ci sentiamo dire: Arrivederci e grazie.
Che meraviglia, una macchina che ci saluta! Me ne stupisco sempre. E inevitabilmente, per gratitudine (o per buona educazione?), mi viene da rispondere: Arrivederci a te!
Torto
Non dobbiamo sempre dare ragione a un figlio, per un motivo molto semplice: perché spesso non ha ragione.
Veramente, non dovremmo mai dare ragione a nessuno, se non ce l'ha (o meglio, se a noi pare che non ce l'abbia, ovvio!); nemmeno a un amico o a uno zio, o a un superiore, a un collega, un allievo, un medico... È una questione di rispetto: bisogna rispettare il torto dell'altro.
Ma con un figlio ancor di più. Dobbiamo dare molta fiducia al suo aver torto, pensare che è dai torti che verrà fuori quel che veramente è, lasciare che il torto lavori in lui e lo cambi, e lo porti ad avere, un giorno, ragione.
Ci vuol tempo. Dobbiamo lasciare che il tempo lavori, dentro i nosti figli.
Torto è anche l'aggettivo torto: stortato, piegato. Participio passato del verbo torcere. Qualcosa che ha subito un movimento di torsione, e quindi ha perso la sua posizione lineare, giusta. Si è curvato, è diventato tortuoso. La strada può essere torta (tortuosa) o diritta. Ma anche la mente. Aver la mente torta vuol dire pensar sbagliato, o perdersi in tortuosità intellettuali.
Torto è il contrario di diritto. È manchevolezza, sbaglio, ingiustizia, errore di prospettiva. Un difetto della vista interiore, tutto sommato, un mettersi a guardar le cose dalla parte sbagliata, o avere qualcosa davanti agli occhi, un muro o un filtro o un qualsiasi ostacolo (spesso ideologico) che impedisce di vedere, ci porta verso tunnel e anfratti senza luce, ci rabbuia e piega.
Avere torto è stare lontano dalla verità diritta del proprio essere, e del proprio agire. Aver perso la strada. Ci vuole tempo per colmare quella lontananza, per ritrovare la direzione. Si tratta di un viaggio lungo. Ma si può fare. Soprattutto un figlio ce la può fare, proprio perché ha il tempo davanti a sé.
Se però gli diamo ragione quando ha torto, gli impediremo il viaggio.
Il viaggio (in motorino?)
dei nostri figli
Ho finito di leggere il libro appena uscito di Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet. S'intitola La fatica di diventare grandi, e anche lì si parla di viaggio.
Pietropolli Charmet dice che noi adulti abbiamo smesso di accompagnare i giovani nel viaggio verso la maturità: non prevediamo più per loro iniziazioni, rituali. Sono scomparsi i cosiddetti riti di passaggio. Nulla di socialmente condiviso segna più la fine dell'infanzia, o l'inizio della vita adulta. Ognuno scivola in un suo tempo uniforme e grigio, liquido, liquefatto. Si diventa qualcosa senza accorgersi di cosa, di quando. I genitori non fissano più le regole, né i confini. Tanto meno le date dei passaggi. Al posto loro ci sono due entità, ci fa notare Charmet: il gruppo dei pari (i compagni di classe, gli amici, la banda dei bulli) e le grandi corporation, che inventano l'oggetto giusto in cui i giovani, nelle diverse età, possano identificare (e comprare!) il loro sogno. Così, l'infanzia, l'adolescenza e la vita adulta non sono più segnate da riti quali il primo giorno di scuola, il fidanzamento, il matrimonio; ma da oggetti: il cellulare, il computer, il motorino, il tablet, la piccola auto (o "macchinetta") e via così, a scandire le varie fasi, le tappe, della maturità. Sono i coetanei e gli oggetti, a officiare i riti di passaggio.

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