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Questo articolo è stato pubblicato il 02 ottobre 2014 alle ore 08:03.
L'ultima modifica è del 02 ottobre 2014 alle ore 15:06.

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C.S. Lewis non capiva perché alla gente piacessero tanto gli strip-tease. Invitava a immaginare un Paese in cui si può portare in scena sotto i riflettori un piatto coperto, e poi sollevare lentamente il coperchio fino a svelare, tra i mugolii del pubblico… una bistecca di manzo! Non pensereste, chiedeva, che laggiù l'appetito per il cibo ha preso una strana piega? Erano gli anni Quaranta, e l'autore delle Cronache di Narnia non poteva sapere che saremmo diventati esattamente quel Paese lì, a giudicare dall'ossessione per i talent show culinari, per i programmi di ricette, per i canali tematici dedicati alla cucina.

A dire il vero, che il cibo si avviasse a diventare una branca della pornografia lo avevo intuito già da piccolo: mia nonna era stata abbonata d'ufficio a Tutto Diabete, ma tra le pagine nascondeva riviste con foto di torte al limite dell'hard, esattamente come noi ragazzini acquattavamo le donne nude nei libri di scuola.

Ora la ninfomania alimentare è venuta alla luce del sole, out of the closet, ed è bene che sia così. Come in ogni rivoluzione sessuale che si rispetti, c'è anche chi suggerisce di compiere il passo successivo. Michael Pollan, giornalista americano esperto di alimentazione, nel suo libro Cotto (Adelphi) parla del «paradosso della cucina»: più parliamo di cibo, più guardiamo persone che cucinano, più leggiamo libri di gastronomia o andiamo in ristoranti con lo chef in vista, meno cuciniamo. «Non occorre sottolineare che il cibo cucinato in televisione non finisce nel nostro piatto», proprio come le conigliette di Playboy non finivano nel nostro letto. Dice Pollan che non dovremmo accontentarci dello spettacolo, e che tutto sta a ricominciare a cucinare: per la salute, per i rapporti umani, per riformare il sistema alimentare, perché la cucina è una scienza erotica come l'alchimia, per conoscere meglio la natura e la specie.

Il rimedio è antico, e sta nel solco di quella tradizione che dalla lettera di Rousseau sugli spettacoli arriva ai situazionisti di Guy Debord: non vivere di surrogati immaginari, abolire il confine tra la scena e la platea, diventare chef. Tutto molto bello e molto utopistico: la rivoluzione è un pranzo di gala! Poi però uno entra in un supermercato, trova quelle zuppe con l'etichetta «proprio come la faresti tu a casa», si guarda dentro con onestà, capisce che nel suo caso quella scritta è una minaccia, e si rassegna al suo destino di alienazione. Vivrà di scatolame, sognando la bistecca del paginone centrale.

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