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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2014 alle ore 08:16.

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Dal 1992 al 1994, l'Italia è in preda alla confusione politica e istituzionale: Tangentopoli, i governi tecnici, l'arrivo di Forza Italia. Sullo sfondo, l'escalation violenta di Cosa Nostra: dall'omicidio di Lima al picco degli attentati a Falcone e Borsellino, alle bombe di Roma, Firenze, Milano.
Qualche anno fa, Massimo Ciancimino, figlio dell'ex sindaco di Palermo, ha sostenuto l'esistenza di un "papello" contenente le richieste dei mafiosi, e che sarebbe stato l'oggetto di una trattativa, gestita dai Ros dei carabinieri, prima con Riina e poi con Provenzano (dopo la cattura del primo, facilitata dunque da Cosa Nostra per far procedere più speditamente la trattativa). Una serie di pagine oscure, tra depistaggi, falsi pentiti, mancate indagini e documenti spariti, su cui è ancora in corso un processo e in cui il film La trattativa di Sabina Guzzanti, ibrido di documentario e finzione, cerca di trovare un filo.
Si può discutere su cosa la trattativa sia stata, su cosa si debba intendere per "Stato" in quella occasione, chi siano stati gli interlocutori, quali i terreni di scambio e i vantaggi effettivamente ottenuti. Il film sembra optare per un'ipotesi massima: furono coinvolti i vertici delle istituzioni, i mafiosi ottennero quel che volevano, e venne la pace, e la rovina. Ipotesi forte e ovviamente opinabile, sulla quale ha scritto pagine utili Salvatore Lupo nel libro La mafia non ha vinto (Laterza). Ma non è questo il punto. È soprattutto nella scelta estetica, di fare un racconto, anzi a tratti un racconto per bambini (specie nelle spiegazioni declamate dall'attrice), che il film mostra i suoi limiti. Se il miglior cinema d'inchiesta è spesso problematico, inquieto, qui fila tutto liscio, i pezzi del puzzle vanno a posto, e la spiegazione arriva facile-facile, anche quando i passaggi non sembrano così lineari come vengono presentati. E se alcune parti del film sono giornalisticamente interessanti (quella sul pentito Spatuzza, o la tragica fine di Luigi Ilardo, che collaborò coi carabinieri per far catturare Provenzano ma venne "bruciato", e il boss restò libero per anni), bisogna in compenso mandar giù uno stile da parodia di "Blu notte", accenti farseschi incongrui, e un tono paternalistico più che didattico in senso brechtiano, con il grottesco che indebolisce l'inchiesta, e la fiction che invece la rende troppo apodittica.
A chiarire i limiti dell'operazione è il finale, quando il grottesco e l'inchiesta lasciano il posto alla retorica, e la voce di Guzzanti declama il sugo di tutta la storia. L'Agenda Rossa di Borsellino svelerebbe forse tutti i segreti; la Trattativa, da effetto di un dato momento storico, di coinvolgimenti istituzionali e di complicità politiche, diventa causa, anzi La Causa del Degrado Italiano. Una conclusione tanto apocalittica da risultare consolatoria: la Trattativa generò Dell'Utri (però, anche a giudicare dal film, involontariamente, visto che i politici tirati in ballo nel processo sono quasi tutti di centrosinistra); Dell'Utri, puparo occulto, generò il berlusconismo. E gli italiani, verrebbe da chiedere, non l'hanno votato? «Noi» (illuminati, intellettuali, «lavoratori dello spettacolo» come dice il film paragonandoci e paragonandosi un po' oscenamente a Borsellino) abbiamo solo subito, vittime di un complotto?
Insomma, alla fine, il film di Guzzanti testimonia anche i limiti di una certa sinistra, della sua visione della politica e della società. È inevitabile il confronto con Belluscone di Franco Maresco, che sintetizza gli stessi temi di Guzzanti in cinque minuti, e da lì parte per dare un ritratto feroce e profondo del nostro presente, dall'assenza del senso civico al narcisismo di massa, da Dell'Utri ad Amici (ospite Renzi). Quello sì, è un esempio di come il cinema può illuminare sui destini di un Paese e riflettere coraggiosamente sul proprio ruolo.
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