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Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2014 alle ore 08:14.

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Il nome del cosentino Valentino Gentile è oggi sconosciuto ai più, ma negli anni cinquanta-sessanta del Cinquecento interi libri su di lui e contro di lui furono pubblicati da alcuni dei più illustri teologi protestanti, impegnati a porre un argine alle eresie sempre più radicali che pullulavano nel mondo riformato. Per una breve stagione parve addirittura profilarsi all'orizzonte una nuova setta di gentilisti, discepoli o seguaci dell'eresiarca calabrese, battezzati anche come triteisti o deisti, il nocciolo della cui dottrina era la negazione del dogma trinitario. Nel 1561 lo stesso Calvino diede alle stampe un opuscolo per denunciare l'Impietas Valentini Gentilis, e qualcuno gli affibbiò addirittura l'appellativo di princeps antitrinitariorum. Poco prima che egli lasciasse l'Italia, nell'ottobre del 1553 lo spagnolo Miguel Servet era stato bruciato vivo nella Ginevra di Calvino a causa delle dottrine antitrinitarie da lui professate, e la vicenda aveva destato grande scalpore e aspre polemiche contro quello che fu denunciato come un inammissibile riflusso autoritario della Riforma, nata da una ribellione contro l'ortodossia romana e approdata infine a un'altra e non meno intollerante ortodossia dottrinale. A guidare la battaglia contro Calvino furono soprattutto alcuni esuli italiani, che affiancarono il savoiardo Sebastien Castellion nella sua coraggiosa difesa della libertà di coscienza. Fu allora che si strinse quel nesso tra antitrinitarismo e rivendicazione della tolleranza religiosa destinato poi a svilupparsi nella Polonia seicentesca come socinianesimo, così definito dal nome dei suoi riconosciuti maestri Lelio e Fausto Sozzini (Socinus), destinato a svilupparsi e consolidarsi nel Seicento fino a diventare la fede professata da personaggi della statura di John Locke o Isaac Newton in Inghilterra o da Voltaire in Francia.
A quel mondo di esuli italiani religionis causa Delio Cantimori dedicò nel 1939 un libro che resta un classico della storiografia italiana, Eretici italiani del Cinquecento, in cui dava un significato specifico al concetto di eretici, intesi non come dissidenti da questa o quella ortodossia dottrinale, ma come ostili a ogni ortodossia in quanto tale e protesi invece a rivendicare una libertà di ricerca e discussione che da un lato si rifaceva allo spirito originario della Riforma e dall'altro si ricollegava al razionalismo filologico della tradizione umanistica. A metà Cinquecento, scrive Addante, «alcune correnti del radicalismo italiano s'intrecciarono alla circolazione delle idee europee, contribuendo alla configurazione di pratiche e discorsi inediti, che ribaltarono modi di pensare e agire consolidati da secoli, favorendo l'emersione di nuove concezioni della libertà e di modi di guardare al mondo sempre più indipendenti dalla divinità». Non solo il socinianesimo infatti, ma anche il libertinismo e il deismo affondano le radici in quelle premesse cinquecentesche. Fu nell'ambito di quelle correnti che Valentino Gentile agì e operò con un profilo originale e autonomo nell'arco di poco più di un decennio, dal suo arrivo a Ginevra nel 1557 fino alla condanna a morte come eretico impenitente decretata nel '66 dalle autorità bernesi. Il libro ricostruisce la biografia, il profilo umano e le turbinose polemiche dottrinali in cui Gentile fu coinvolto, ricollegando il radicalismo di cui fu protagonista negli anni dell'esilio alle sue matrici religiose italiane, al suo coinvolgimento nello spiritualismo dell'esule spagnolo Juan de Valdés, alcuni dei cui seguaci e discepoli conobbero negli anni quaranta sconvolgenti sviluppi in senso antitrinitario, anabattistico e libertino, ricostruiti con grande efficacia da Addante in un altro libro (Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, pubblicato da Laterza nel 2010), cui questo si ricollega esplicitamente. È infatti solo alla luce dalle "esperienze maturate in Italia" che si possono comprendere le premesse degli orientamenti assunti in terra svizzera, e poi nell'emigrazione in Moravia, Polonia e Transilvania, dagli esuli italiani che, pur talora divisi tra loro, furono protagonisti della lotta anticalvinista insieme con Gentile, dal medico saluzzese Giorgio Biandrata al nobile saviglianese Giampaolo Alciati di cui è apparso pochi mesi fa un profilo storico dello stesso Addante, dal siciliano Camillo Renato ad altri piemontesi come Matteo Gribaldi o Celio Secondo Curione, dal sardo Nicola Gallo ai senesi Lelio, Camillo e Fausto Sozzini, dal veneto Niccolò Paruta al ligure Niccolò Camogli, dal romano Francesco Betti al greco-genovese Iacopo Paleologo da Chio e tanti altri.
Del tutto nuovo e inatteso, per esempio, è il denso quadro della Calabria eterodossa del Cinquecento con cui il libro si apre, per seguire poi il percorso di Gentile nella Napoli valdesiana, vicino agli ambienti dell'Accademia Pontaniana, e poi nell'impegno proselitistico in Sicilia fino alla fuga in Svizzera che inaugurò la sua tormentata riflessione antitrinitaria in terra riformata, punteggiata da scritti, polemiche, arresti, abiure, tra Ginevra e Farges, Lione e Grenoble, la Polonia e la Valacchia, fino all'ultimo ritorno in Svizzera, con la scelta – per certi versi incomprensibile – di riproporre di persona le sue dottrine che lo avrebbe portato alla decapitazione sul patibolo del 10 settembre 1566. E altrettanto meritevole di interesse è l'inserimento a pieno titolo del Gentile nel variegato mondo del radicalismo italiano poi sviluppatosi non solo come socinianesimo, ma anche – sottolinea Addante – nella prospettiva di una fede deista, capace di fuoriuscire dal recinto della rivelazione cristiana e talora "tanto libera da poter essere libertina", fondata sul principio che a tutti dovesse essere riconosciuto il diritto di "parlare liberamente".

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