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Questo articolo è stato pubblicato il 24 ottobre 2014 alle ore 11:28.
L'ultima modifica è del 24 ottobre 2014 alle ore 15:49.

«Il vizio dell'arte l'ho riscritto tre volte, non funzionava, poi si è aggiustato alle prove. E il fatto che l'incontro fra i due non sia mai esistito ha facilitato le cose: potevo inventare». Lo stesso Alan Bennett, autore della commedia scritta nel 2009 (anno del debutto al National Theatre di Londra) aveva sottolineato quanto fosse complesso e difficile trasporre in scena il meccanismo del teatro nel teatro, il quadro nel quadro, l'invenzione nell'invenzione. «The Habit of Art» è una sorta di caleidoscopio con al centro l'incontro - mai avvenuto nella realtà - fra il poeta Wystan Hugh Auden e il compositore Edward Benjamin Britten, intervistati da un dottorando che si sdoppia nel ruolo del loro vero biografo, Humphrey Carpenter.
A metterlo in scena in Italia ci ha pensato la prolifica compagnia del Teatro dell'Elfo e si può dire che questo secondo lavoro sullo scrittore e drammaturgo britannico, dopo il successo di The History Boys, è ben riuscito e convincente. Il gustoso scambio di battute fra i due artisti ormai anziani, interpretati da Ferdinando Bruni/Auden ed Elio De Capitani/Britten, ha per cornice la pièce teatrale «Il giorno del Calibano» intorno alla quale si muovono tecnici, musicisti, registi e aiuto registi. Il grande poeta, descritto come un vecchio pervertito che rimorchia ragazzini (con cui poi non combina nulla), veste dimesso e piscia nel lavandino della sua caotica, nutre in realtà un gran desiderio di tornare a scrivere come un tempo, mentre il compositore, elegante e raffinato, è alla ricerca di rassicurazioni sulla sua ultima opera, «Morte a Venezia», e tenta un recupero di quelle affinità che un tempo lo legavano all'amico e collega. Fra i due, ormai vicini alla fine dei loro giorni, emergeranno i ricordi delle punte di eccellenza alternate ad aspetti grotteschi sulle loro esperienze artistiche e accademiche, le tendenze sessuali represse e censurate. La fluente e brillante dialettica poetica di Auden che ben si coniugava con la potente visione creativa di Britten. Tutto appartiene al passato, tutto degenera in un magistrale battibecco fra istrioni, dove ne fa le spese anche il grande Thomas Mann che viene descritto come un pallone gonfiato, la sua opera come lettura “obbligata per froci”.
L'ultima opera di Britten viene liquidata con brutalità da Auden: «È la storia di un vecchio che vuol farsi il ragazzino» e al compositore non resta che la debole difesa «il vecchio è innocente, il ragazzino rappresenta la bellezza». Poi la scatola teatrale si riapre e riprende la storia di Calibano sotto la direzione e il supporto di un aiuto regista (interpretata dalla brava Ida Marinelli) e di un solerte suggeritore di scena (Vincenzo Zampa) che intervallano il complesso meccanismo teatrale con gustosi siparietti canori. Ancora una volta si conferma lo spessore e l'abilità di Bruni e De Capitani, con la sapiente mano della regia e la complicità degli altri bravi attori, nell'interpretare la sferzante ironia di Alan Bennett, dando forma ad un appassionato gioco di equilibri fra attori e teatro, tutti accomunati dal “vizio dell'arte”. Da non perdere.
«Il vizio dell'arte» di Alan Bennett, traduzione di Ferdinando Bruni, di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia, musiche dal vivo Matteo de Mojana, con Ferdinando Bruni, Elio De Capitani, Ida Marinelli, Umberto Petranca, Alessandro Bruni Ocaña, Michele Radice, Vincenzo Zampa, Matteo de Mojana. Fino al 16 novembre al Teatro Elfo Puccini di Milano
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