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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2014 alle ore 08:19.

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Tutto quello che ami sta in Texas. Se fossi il Governatore dello Stato in questione, è così che promuoverei la regione: è qui che Bill Callahan scrive i suoi dischi, qui che fanno il SXSW (il South by Southwest, festival musicale e cinematografico), qui che Terrence Malick cerca di riprendersi dagli affanni di The Tree of Life e To the Wonder con un film ancora senza titolo sulla scena musicale di Austin. Ed è qui che è ambientato Love Me Back di Merritt Tierce (Random House), uno dei romanzi più duri e disinteressati al rimedio delle proprie tristezze che potrete mai leggere. Scoperta da Ben Fountain, autore del mai abbastanza apprezzato È il tuo giorno, Billy Lynn! (minimum fax) e segnalata dalla National Book Foundation nella lista dei cinque migliori autori sotto i 35 anni, Merritt Tierce è la conferma, entusiasmante per quanto disperata, che certe scritture non sono sparite con Mary Gaitskill, forse l'unica autrice americana che ha saputo raccontare gli abusi del corpo e i giorni della droga senza incappare nella demenzialità lisergica degli emuli di Hunter S. Thompson né nel confessionalismo intriso di cordoglio degli ospiti di Oprah Winfrey.

Quando Ben Fountain dice che non c'è un grammo di sentimentalismo nella scrittura di Merritt Tierce, sta usando un eufemismo. Marie, la protagonista di Love Me Back, è una cameriera rimasta incinta a 17 anni durante un campo di volontariato religioso che ha deciso di tenere la figlia con la stessa impassibilità con cui affronta tutto il resto. La relazione con il padre della bambina finisce in fretta a causa della sua propensione a fare sesso con sconosciuti raccattati sul posto di lavoro: Lars von Trier l'ha chiamata ninfomania e ci ha fatto un film brutto, Tierce non la nomina mai – il dolore di Marie non è un'etichetta – e tira fuori un libro che ti fa sentire come quando hai letto Requiem per un sogno di Hubert Selby Jr. per la prima volta: annichilito, nauseato, conquistato.

Ma Love Me Back è soprattutto un romanzo sul mondo sommerso e per niente salvato di chi serve ai tavoli e lavora nell'industria dei servizi: al netto delle scene di sesso – incessanti, violente, eccitanti tuo e suo malgrado – questo libro, che nasce da una concatenazione di racconti, è un canto dimesso e a tratti comico su camerieri, sous-chef e portavivande che trasformano ogni ristorante in un posto in cui succedono cose di cui clienti e lavoratori sono reciprocamente ignari e che tuttavia hanno bisogno degli uni come degli altri: di chi è nato per servire come di chi è nato per comprare. C'è Marie, che non sa fare la madre, e dipende dal suo lavoro perché le dà una struttura militare: «Ci sono solo due momenti in un ristorante: il prima e il dopo. Entri, ti fai il mazzo, cerchi di non mandare tutto in vacca fino alla fine e poi è la fine. Hai tirato su dei soldi oppure no». C'è Danny, «un ratto italoamericano» che forse ha la sindrome di Tourette e gestisce «il Ristorante» con un equilibrio trascendentale, considerato che per tre quarti delle volte è intriso di sostanze dopanti. C'è l'uomo che non vuole essere toccato, c'è quella che stende i clienti con la bellezza di un corpo che è come un vestito che non leva mai. Ci sono i lavapiatti senza permesso di soggiorno che diventano padri da adolescenti e festeggiano bevendo birra in un parcheggio, mentre il cellulare li mette in contatto con il Messico. Per ragioni che l'autrice fa bene a non esplicitare, queste persone non sono il loro lavoro, ma vogliono essere il loro lavoro: «Sappiamo entrambi che se intorti la situazione e se ti pieghi verrai ricompensato. Mantieni alti i tuoi standard e lavori come un mulo, ma è quello che ti serve per avere successo. Tieni la tua dignità separata, altrove, appiccicata a cose diverse». Siamo anni luce dalle performance circensi di Tyler Durden in Fight Club quando lavorava nei ristoranti, l'unico dettaglio stile Cucine da incubo è quello sulla tequila scadente riversata in bottiglie costose per essere servita agli sprovveduti. La scrittura ipotattica è spesso ingannevole: c'è un confine tra la visceralità e l'atarassia, tra la rabbia e il nulla, e l'autrice non lo supera mai. Nella sua concisione, è feroce. Nella sua compassione, è infinita.

Quasi trent'anni dopo Meno di Zero di Bret Easton Ellis e Bad Behavior di Mary Gaitskill, Merritt Tierce fa traslocare il nostro desiderio di umiliazione dalle autostrade losangeline e dai condomini newyorchesi direttamente a Dallas. Per dire che tutto quello che ti fa male sta in Texas.

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