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Questo articolo è stato pubblicato il 27 ottobre 2014 alle ore 08:19.

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Non è una buona idea, anche se potrebbe sembrarlo. Se nasci figlio di una popstar, studia architettura o medicina, ma lascia perdere la musica.
Avrai pure qualcosa di melodioso nei cromosomi, ma la sfida psicologica che ti accingi ad affrontare non promette niente di buono, se non per il conto in banca del tuo psicanalista. Il paragone diverrà la tua persecuzione, l'ombra lunga di tuo padre ti sovrasterà, nulla di quello che farai si sottrarrà al raffronto con come lo faceva papà.

Eppure un sacco di figli dei protagonisti della musica moderna, non riescono a stare lontano da quel mondo. Le loro carriere sono spesso dignitose, quasi sempre trattate con un velo di distacco da parte dei media e di solito, un po' alla volta, tendono a impallidire, mentre il monumento del genitore è costantemente ben in vista, a farsi venerare.
Come si fa a nascere figlio di un Beatle, e a fare la propria musica? Julian e Sean Lennon ci sono riusciti a intermittenza, Dhani Harrison è diventato il curatore dell'eredità paterna, come Dweezil Zappa, Jason Bonham addirittura impersonava quel pazzo di papà John, ai tamburi di vaghe reincarnazioni degli Zeppelin.

Tanti sono finiti schiacciati dalla personalità del celebre genitore: le carriere di Jakob Dylan, Harper Simon, Ben Taylor, Baxter Dury meritavano di più, per come ciascuno di loro ha sviluppato una personalità musicale, in cui i riflessi paterni si vedevano, ma erano solo un punto di partenza. Raramente sono stati presi sul serio.
Pochi musicisti si sono davvero scrollati di dosso il peso della discendenza: viene in mente Rufus Wainwright, che ha surclassato quel debosciato di papà Loudon Wainwright III. O Norah Jones, così lontana dalla radice musicale del padre Ravi Shankar, da giocare una partita tutta sua.

Ci stava riuscendo Jeff Buckley, che con il genitore Tim aveva tanti conti da regolare e che lo aveva artisticamente interiorizzato, restituendolo in forma nuova e più potente, salvo imitarne la predisposizione ad autodistruggersi anzitempo.
Adesso si fa un gran parlare di un'altra storia musicale padre-figlio, che però ha imboccato una strada diversa. Jeff Tweedy è uno dei santoni dell'alt-rock americano, al crocevia tra folk, country e songwriting. Coi suoi Wilco è il caposcuola di uno street style che riesce a essere, al tempo stesso, ruspante e letterario. Jeff ha un figlio, Spencer, che ha solo 18 anni, suona la batteria e vuole seguire le sue tracce, muovendosi musicalmente negli stessi territori. E cosa fa, saggiamente, il padre, per evitare i soliti meccanismi di raffronto e sottomissione? Fonda un gruppo con Spencer, che porta il cognome di famiglia, Tweedy appunto, e con lui produce un disco, Sukierae, diventato un hit istantaneo nelle college radio americane.

Si potrebbe sospettare un caso di paternalismo, una raccomandazione sotto forma di patrocinio, un'effetto-spintarella. Ma ascoltando l'album e se si conosce la produzione dei Wilco (e prima degli Uncle Tupelo, band con cui Jeff si è fatto le ossa) s'intuisce che l'operazione fatta dal Tweedy grande, è sofisticata. Perché i suoni sono quelli di famiglia, l'atmosfera è la stessa, ma Jeff scrive le sue canzoni e canta le sue strofe, lasciando a Spencer, al suo fianco, il proprio legittimo spazio musicale. Il territorio comune dei due sono proprio quei 30 anni che li separano e soprattutto un comune oggetto d'amore: Sue Miller, madre di Spencer e consorte di Jeff, che nei mesi delle registrazioni combatte una brutta battaglia con il cancro e diviene la musa e la protagonista del disco, l'interlocutrice di tutte le canzoni, la sorgente di tante riflessioni.
Sukierae è il nickname di Sue e il disco è per lei, adorata presenza che solo un padre e un figlio possono condividere senza essere divorati dalla gelosia, commuovendosi nel tentativo di dar forma alla devozione.
In fondo non era difficile, no? A placare ogni rivalità, a far convivere il talento celebrato e l'irrequietezza della gioventù, altro non serviva che il cuore di mamma.

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