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Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2014 alle ore 08:19.

Due cospirazioni contro il presidente Gronchi. Vecchie spie che brindano in terrazza, vagheggiando l'amore di una marchetta. Un torturatore misterioso alle dipendenze del Sifar che si interroga sul senso del proprio operato. Le Olimpiadi del 1960, Roma splendida e marcescente come una torta nuziale al sole. Arbasino e Moravia che gigioneggiano in trattoria. 1960 (Mondadori, in libreria dal 28 ottobre), il nuovo romanzo di Leonardo Colombati, ha qualcosa della teoria del complotto: ogni dettaglio è lucidamente realistico, eppure il complesso ricorda un'allucinazione.

John Fante assoldato da un doppiogiochista della Cia. La splendida figlia di un agente segreto che scopre la sessualità sognando un altro agente segreto. Pasolini che insegue ciclisti nel bazar babilonico del villaggio olimpico appena costruito. Colombati parla della storia d'Italia: quella ufficiale, e quella nascosta, e quella trasfigurata nel mito degli anni Sessanta, e quella inventata da lui. Che storia è?

In superficie è una storia di spionaggio, inserita nelle vicende reali del Sifar diretto dal generale De Lorenzo. Un colonnello intrigante inventa un finto piano per rapire Gronchi, ordito da un pugno di nostalgici fascisti nelle forze armate, col fine di fare carriera. La soffiata risale la gerarchia dei servizi segreti, amplificandosi di passaggio in passaggio, sino a che alcuni si risolvono a metterla effettivamente in atto. Una menzogna diventa verità, che è sia la cifra del postmoderno che quella della politica italiana.

1960 segue in parallelo i percorsi di tutti i personaggi che si ritrovano coinvolti nel complotto. De Lorenzo e la figlia adolescente del colonnello, l'impiegatuccio che se ne innamora sorvegliandola al telefono e la marchetta che senza volerlo si ritrova al centro di un intrigo internazionale. E poi ex-fascisti, ex-nazisti, centraliniste, olimpionici, romanzieri, travestiti e soubrette: una collezione sterminata di figure (fra cui molte reali) che si incrociano in una Roma in bilico fra il seppia della foto d'archivio e i colori iper-saturi della mitografia. Tramano colpi di stato, scopano, fanno gossip letterario, cercano di smarcarsi da un passato intollerabile o di costruirsi un futuro nella cosiddetta “Italia del boom”. Fanno il contorno.

Sotto la superficie, però, sono proprio queste storie sparpagliate di contorno il cuore del romanzo di Colombati, che sull'anno del titolo non punta tanto un cannocchiale quanto un caleidoscopio. Benché articolato e accattivante, il filo del thriller è volutamente lasco: la trama si sfilaccia a seguire le vicende (appassionanti, tragicomiche, toccanti, banali: romanzesche) dei personaggi secondari, la ricostruzione storica sfuma ogni volta nell'invenzione letteraria. Colombati adesca il lettore col profumo di spionaggio, ma l'esca gli serve per portarlo altrove, in una molteplicità di prospettive individuali lambite da eventi di portata collettiva. Il confine fra “grande” e “piccola” storia, fra storiografia e narrativa e mito, è costantemente, deliberatamente messo in discussione. Il lettore si sorprende più volte a sospettare che non esista.

Nonostante ne adotti la maschera, quindi, 1960 non è un'opera di fanta-storia, sul modello un po' superficiale della New Italian Epic. Non mira a dimostrare una tesi di tipo politico applicando agli eventi reali una procedura ipotetica (“e se…?”). Innanzitutto perché in tutto il romanzo aleggia il dubbio pynchoniano che gli eventi reali, propriamente parlando, non esistano (non come un insieme ordinato e definibile, privo di porosità). In secondo luogo perché anche a prenderli alla lettera, questi eventi non dimostrano nulla.
Il complotto si risolverà in un nulla di fatto, per un complesso di coincidenze e per la faciloneria dei congiurati; le Olimpiadi finiranno; i servizi deviati continueranno a deviare, gli ex-fascisti e i democristiani a succedersi nel gioco delle poltrone, gli intellettuali romani a invidiarsi, scrivere e gozzovigliare, Fante a inseguire una vena letteraria che teme esaurita, Roma a sprofondare mollemente nella sua bellezza. La “grande storia”, if any, esiste solo per l'impatto che ha sulle traiettorie personali che va a incrociare: chi perde l'occasione di sentirsi un eroe, chi deve affrontare un espatrio, chi ha troppo rimandato una scelta che la vita, alla fine, prende per lui.

Il risultato è un romanzo magistralmente complesso, eppure rapido e spesso scanzonato, di una postmodernità più epica che borgesiana, perfettamente coerente all'Italia: DeLillo costretto a una filosofia della storia cinica e gattopardesca, in cui lo splendido colpo del battitore toglie il fiato allo stadio e poi non porta a niente.
«Lei capisce, colonnello», recita una delle interviste che punteggiano la narrazione, in cui un anonimo storiografo si rivolge a uno dei congiurati, «che sta rendendo piena confessione di un reato gravissimo?».
«Ma cosa vuole che me ne freghi, diocàn! Sono vecchio e ho il cancro».

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