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Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2014 alle ore 16:31.
L'ultima modifica è del 31 ottobre 2014 alle ore 18:39.

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La schiera di alberi veri di Visconti; la vela di Strehler che dal fondo arrivava al palcoscenico, l'accumulo di tappeti di Peter Brook; l'interno claustrofobico di un salone chiuso di De Capitani. E si potrebbe continuare all'infinito a ricordare allestimenti più o meno celebri del “Giardino dei ciliegi” di Cechov, che si sono susseguiti nel tempo e continuano ad essere rappresentati.

Perché questo testo fondamentale del Novecento – ultimo per il teatro prima della morte dell'autore -, dopo più di cent'anni riesce ancora a parlare in modo forte e vibrante, coinvolgendo esistenze e sentimenti in un problema che è anche politico e civile. Condensa in sé tutta la modernità di un universo umano inesorabilmente vittima del tempo che fugge, dei rimpianti, della nostalgia, dell'incapacità di agire. Una storia di perdite, di denaro dilapidato, di lutti ancora cocenti, di passioni sfiorite. C'è tutto questo e molto altro nell'opera di Cechov che coglie la decadenza di una famiglia aristocratica russa – con in testa l'incosciente e scialacquona Ljuba - convenuta nella tenuta di campagna che, a causa di problemi economici, sarà messa all'asta; e di un servo, Lopachin, che diventa padrone, e dei padroni che diventano servi.

Un mondo, quindi, finito e ribaltato. E così i personaggi del dramma vivono nella memoria e nella nostalgia del passato, altri nell'angoscia del futuro. Nessuno di loro è in grado di vivere il presente. Allora come oggi. E nella nostra realtà contemporanea, nella fattispecie dei giovani. Qui sono insensibili, ciascuno chiuso nel proprio silenzio, incapaci di ascoltare gli altri e di affrontare le conseguenze di un cambiamento. Sembrano già soli con se stessi, senza una direzione cui rivolgersi. Così li ha voluti, e rappresentati, il giovane regista Benedetto Sicca, imprimendo agli attori una recitazione nevrotica e molto gesticolante.

Nel suo “Giardino” non ci sono alberi, né si odono colpi d'accetta. Niente dacia, né poltrone, né samovar. Non ci troviamo dentro l'interno di una casa in decadenza, destinata a implodere ed essere distrutta come il “Giardino” del titolo, per fare posto a lottizzazioni di villette a schiera, per le nuove classi urbane emergenti. Non troviamo l'aspetto ambientalista, altro elemento dell'opera. Visivamente, il suo “Giardino dei ciliegi” il regista l'ha sintetizzato nella lineare scena di tre sedie di legno chiaro alle quali sono legate delle corde tirate in alto in più direzioni a formare un reticolato. Appena sfiorate, nell'andirivieni dei personaggi, cade della polvere che ritroviamo anche sul pavimento, alludendo a una decadenza già avvenuta, o in atto. Le corde sembrano simboleggiare i rami di quegli alberi di ciliegio che, nel secondo atto, il regista farà avanzare sul proscenio, spostate a vista dagli stessi attori, a voler legare, in un coinvolgimento attualizzato (e così abusato), il palcoscenico e la platea che, nel frattempo, si illuminerà con i protagonisti scesi a coinvolgere qualche spettatore nella sequenza del ballo.

Il senso di fine di un ordine sociale della tragicommedia di Cechov si respira abbastanza in questo allestimento portato in scena al Filodrammatici di Milano ad opera di Sicca con gli attori della Associazione Culturale Teatro “Ma”, formata in gran parte da giovani ex allievi del teatro milanese. E vestono tutti in abiti casual; entrano ed escono en ralenti o di corsa, si bloccano in pause; vengono alla ribalta chiamati dal “vecchio” maggiordomo Firs che funge anche da cerimoniere (lo stesso Cechov?); si sdoppiano quasi tutti in più personaggi, con una recitazione su più toni, e incursioni fuori testo con poesia d'amore di Alda Merini e brano dal “Don Chisciotte” di Cervantes.

Generosa e vitale, va detto subito, è la prova degli attori, affiancati da una violoncellista in abito d'epoca. Ma si fatica a districarsi nell'intreccio della narrazione - che procede quasi per soliloqui – e nel senso dell'operazione di Sicca, che, proprio perché decontestualizzata e ridotta, necessiterebbe di maggior chiarezza. E di un affondo su un'attualizzazione più netta, dai segni più incisivi.

“Il giardino dei Ciliegi” di Anton P. Cechov, regia Benedetto Sicca; con Riccardo Buffonini, Sonia Burgarello, Sara Drago, Mauro Lamantia, Giancarlo Latina, Luigi Maria Rausa, Beppe Salmetti, Carla Stara, musiche dal vivo Bruna Di Virgilio. Produzione Teatro Ma, con il sostegno di Teatro Filodrammatici. A Milano, Teatro Filodrammatici, fino al 2 novembre.

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