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Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2014 alle ore 08:15.

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Con la messinscena del Vizio dell'arte di Alan Bennett il Teatro dell'Elfo conferma la felice vena creativa che sta esprimendo da qualche anno, e centra ancora l'obiettivo dopo un'impressionante serie di successi. Al di là dei singoli risultati, colpisce l'irriducibile costanza del cammino intrapreso: sottovalutare l'unicità di un simile percorso vuol dire non comprendere come questa compagnia abbia saputo adattare la propria storia alle esigenze di un nuovo pubblico, di un nuovo spazio, di una nuova forma di consumo culturale, senza snaturarsi, ma incarnando un profondo impulso di cambiamento.
Al crocevia di queste fortune c'è, non a caso, ancora Bennett, che col suo History boys è assurto, nel 2010, a vero nume tutelare dei primi passi nella "multisala" milanese. L'autore inglese, per gli attori e i registi dell'Elfo, si sta rivelando un importante punto di riferimento, un po' come lo era stato Fassbinder negli anni Novanta: le sue pièce sono brillanti, provocatorie, intelligenti, elegantemente trasgressive. Si riallacciano a una tradizione, ma la loro scrittura appartiene inequivocabilmente al nostro tempo.
Ne Il vizio dell'arte Bennett si diverte a svelare i vizi e le debolezze di due celebri artisti spiandoli nella loro sfera privata, anzi in questo caso privatissima. Il testo immagina un incontro – verosimile, benché di fatto mai avvenuto – tra due grandi protagonisti della cultura del Novecento, il poeta W. H. Auden e il compositore Benjamin Britten, che da giovani erano stati amanti e si ritrovano nel '72 nella stanza occupata dal primo all'università di Oxford, tema l'opera che Britten sta traendo da Morte a Venezia di Thomas Mann, di cui Auden tra l'altro aveva sposato la figlia.
A moltiplicare i punti di vista c'è il fatto che Auden e Britten non vengono fatti rivivere – per così dire – direttamente alla ribalta, ma sono al centro di uno spettacolo che una compagnia teatrale di oggi sta provando, per giunta in assenza del regista, invitato a un convegno, e di alcuni attori impegnati nelle repliche di un dramma cechoviano. A sostituirli sono una volonterosa assistente, l'attrezzista e il collega che già sostiene la parte di Britten, costretto a sdoppiarsi, mentre l'autore, presente in sala, protesta per tagli e modifiche, aumentando l'effetto di provvisorietà e di travolgente improvvisazione che domina il tutto.
Al centro di questo aguzzo esercizio di teatro nel teatro c'è dunque un'ipotetica, finta commedia – Caliban's day – in cui Auden e Britten discutono di Morte a Venezia, interpretati da finti attori britannici a loro volta incarnati dai veri attori dell'Elfo. Le considerazioni buffe o amare sulla poesia, sulla musica, sul rapporto tra la creazione, la vita, l'età che avanza (Auden morirà l'anno dopo, Britten lo seguirà di lì a poco) si intrecciano con le bizze, coi commenti salaci degli attori, coi pettegolezzi più sfrontati, i coiti orali, i ragazzi pagati da Auden.
Uno dei pregi principali del copione consiste nel fatto che non si limita a evocare una piccola galleria di amene figurette, ma tratteggia degli individui a tutto tondo, ciascuno dotato di una propria storia da seguire fino in fondo. L'attore che dà voce a Humphrey Carpenter, il biografo dei due (l'irresistibile Umberto Petranca), rivendica ad esempio un ruolo più rilevante, e si ritaglia un'incongrua scenetta in cui canta vestito da signorina ottocentesca. E a Kay, l'assistente tuttofare, (la brava Ida Marinelli) tocca la battuta finale, «c'è sempre qualcuno che viene lasciato indietro», che fa intuire un passato di delusioni e speranze mancate, sottolineando i risvolti agri che si svelano anche dietro alle trovate più facete.
E poi ci sono loro, i due ingombranti vecchiacci, cinici, maldicenti, sfrenatamente narcisisti: Ferdinando Bruni, che con Francesco Frongia firma anche la nitida regia, è un Auden scorbutico, velenoso, alle soglie del degrado senile, che orina nel lavandino e lascia cumuli di sporcizia in ogni angolo della casa. Elio De Capitani – pronto anche a scatenarsi nei panni di un pittoresco maggiordomo – è un Britten più incline a indossare la maschera dell'ufficialità e dell'ipocrita perbenismo.
Entrambi traggono effetti esilaranti dal proprio ambiguo status di attori e personaggi costruiti "a vista". Entrambi pongono un inquieto interrogativo sul potere salvifico dell'arte rispetto alle miserie dell'esistenza quotidiana, che è poi il motivo conduttore di tutto l'ingegnoso meccanismo, al cui perfetto funzionamento danno un prezioso apporto anche Alejandro Bruni Ocaña, il marchettaro, Michele Radice, l'autore, Vincenzo Zampa, lo stralunato attrezzista, e Matteo de Mojana, il pianista.
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Il vizio dell'arte di Alan Bennett. Regia di Ferdinando Bruni e Francesco Frongia. Milano, Teatro Elfo Puccini, fino al 16 novembre

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