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Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2014 alle ore 08:15.

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Di Joan Jonas si sente dire spesso che è soprattutto una pioniera tra le artiste donne. Una frase del genere può avere un significato che non ribadisca un argine e anche un limite?
Forse sì. Anzitutto perché, dai tardi anni Sessanta, ha piegato la sua attitudine di scultrice a un lavoro sul corpo proprio, insistendo sull'importanza di smettere di nasconderlo. Non a caso, stavano parallelamente lavorandoci anche artiste come Yoko Ono, Carolee Schneemann, Rebecca Horn tra le altre. Inoltre è significativo che, tra il 1972 e il 1976, Joan Jonas abbia concepito l'alter ego Organic Honey, che agiva nelle performance come «seduttrice erotica elettronica»: l'artista ha elaborato una visione del desiderio robotizzato vent'anni prima che il tema del postumano collegasse sesso e tecnologia e che teoriche come Rosi Braidotti ne parlassero. Ma soprattutto appare rilevante la sua inclinazione a sovrapporre i linguaggi, tenendo conto del proliferare dei media e usandoli tutti irrispettosamente, con gioioso distacco da eventuali gerarchie tra i più nobili e i meno accreditati. Lontanissima dal rigore dei cineasti come dallo stupore degli artisti pop per la riproducibilità dell'immagine, poco interessata a sondare, come i minimalisti,
le valenze dei materiali grezzi, si è comportata come una fata disobbediente: ha messo in scena narrazioni fantastiche che sovrappongono i codici già fissati
del cinema, quelli nascenti del video,
quelli della propaganda pubblicitaria.
E questo sempre invadendo anche gli ambiti di una pittura colorista, della creazione
di oggetti, della costruzione di una scena
e di una dinamica teatrali.
Joan Jonas non ci parla dunque del suo essere donna in termini di contenuti. Si è sempre tenuta alla larga dal dare al proprio lavoro motivazioni precipuamente politiche e quindi anche relative al suo genere. Ciò che ha fatto di molto femminile va riscontrato nell'ambito del procedere e dell'aspetto formale: come una cuoca con molti ingredienti a disposizione, non ha avuto paura di uscire da dogmi e canoni e li ha mescolati in modo improprio.
Così ha sposato il disegno con l'immagine proiettata, la fiaba illogica con il racconto consequenziale, la struttura della lirica
con quella del film. E ancora, nei suoi racconti visivi fluttuano con pariteticità impertinente cose, piante, animali, persone, tutto reso vitale in pari modo e come se non ci fossero gerarchie nemmeno tra esseri viventi e non viventi, pensanti o incoscienti: un modo di pensare molto vicino alle teorie di Donna Haraway. C'è solo un essere
e un sentire unitario tra il dentro e
il fuori della mente, pare dirci l'artista newyorkese, ed è di questo che si parla quando parliamo di noi.
In tal senso il suo linguaggio si è allontanato dalla linearità di colleghi maschi che, pure, sono stati per lei rilevanti:
dal fotografo Robert Frank allo scultore Richard Serra agli artisti ambientali Robert Smithson e Dan Graham.
Il lavorare su stringhe di carattere onirico, su strati sovrapposti di senso e su immagini più intuitive che logiche, può essere considerato un tratto femminista. Fatta salva una certa difficoltà a usare questo termine senza specificazioni ulteriori,
forse desueto in tempi di ciò che Judith Butler definisce «disfatta del genere» e cioè di dubbio sul fatto che esista una logica veramente binaria e oppositiva
tra il femminile e il maschile.
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