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Questo articolo è stato pubblicato il 02 novembre 2014 alle ore 08:15.

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Paesaggi urbani o naturali; maschere, specchi, costumi, cani; e lei stessa, la sua figura ogni anno più minuta, ma sempre capace di trasmettere un'impressione di forza e di tenacia. Queste sono alcune componenti delle opere esposte nell'ambito della mostra di Joan Jonas «Light Time Tales», recentemente inauguratasi all'HangarBicocca di Milano. La mostra comprende dieci video e nove installazioni, dalle primissime, realizzate con mezzi sperimentali e poi con una Sony Portapack acquistata in Giappone nel 1970, alle successive, fino al recentissimo Beautiful Dog girato in Canada, a Cape Breton, applicando una gopro al collo del barboncino Ozu.
L'allestimento dell'HangarBicocca è denso in alcuni punti, rado in altri. L'andamento del percorso è circolare, come lo è il lavoro di quest'artista, che, pur nel costante rinnovamento dell'opera e del linguaggio, non esita a rivisitare le proprie opere precedenti o alcune loro parti, in un continuo di riprese e di rimandi tematici.
Nata a New York nel 1936, Joan Jonas è considerata tra le maggiori artiste del presente e tra le pioniere dell'uso del video e della videoinstallazione. Quale sia stata la spinta a sperimentare questo nuovo mezzo di espressione, l'ha chiarito lei stessa in diverse occasioni: in un'epoca in cui il mondo dell'arte era ancora prettamente maschile, le donne erano stimolate a forzarne i limiti individuando un ambito espressivo diverso da quelli tradizionali, in cui sentirsi a proprio agio e poter immettere contenuti propri. Questo sguardo femminile è l'origine di molte innovazioni, anche linguistiche, degli anni Sessanta, e ha accompagnato Joan Jonas in tutto il suo percorso.
E infatti le sue prime opere video sono soprattutto riflessioni sul mezzo e sulle sue implicazioni in termini di spazio, di tempo, di autorappresentazione; con immagini e performance riprese in modo volutamente semplice, ma in realtà frutto di una ricerca culturale ad ampio spettro, e poi alterate e giustapposte,
Sin da allora, infatti, Jonas fa ricorso a un vocabolario di gesti, di rituali e di elementi simbolici assunti da culture diverse; porta nel lavoro un rapporto consapevole con la storia dell'arte, l'interesse per la letteratura e per la poesia, una riflessione sulla natura; e innesta tutto ciò su situazioni e contesti quotidiani. Il risultato è una vera e propria sintesi di linguaggi artistici: il video stesso, la scultura, la performance, il teatro, il disegno. A questo aggiunge un senso di calore il rapporto empatico con gli animali, soprattutto con i suoi cani, da sempre protagonisti delle sue opere.
Pensiamo ai primi film, con il loro linguaggio essenziale; come il magnifico Wind, girato a Long Island, New York, e ambientato su una spiaggia imbiancata di neve. Il film, senza suono, mostra un gruppo di persone intente a eseguire semplici coreografie cercando di resistere alla forza del vento. In questo caso il riferimento è alla danza e al teatro No- giapponese. Pensiamo anche ai piani ravvicinati di Mirror Pieces, una serie di lavori realizzati intorno al 1969, costruiti in scuole, auditori e altri spazi a partire da coreografie che prevedono l'uso di specchi. Il ricorso allo specchio genera una visione precaria e frammentata, ma anche una partecipazione da parte del pubblico che, durante la performance, si riflette entrando così a far parte dell'azione. Si tratta di un dispositivo che l'artista utilizza molto nelle sue indagini sulla soggettività femminile, soprattutto nei primi anni di attività.
Sarà poi l'espansione tecnologica, che Joan Jonas asseconda sfruttando le nuove possibilità che le si offrono, a consentirle di articolare la propria opera realizzando nuove complesse installazioni in cui gli elementi si moltiplicano, includendo riferimenti al presente, al passato, oggetti e danze e rituali dedotti da diverse culture, anche sciamaniche, ma elaborati in chiave soggettiva, al fine di estendere le potenzialità sensoriali. Il tutto attraversato dai continui rimandi a quanto già fatto, come a voler esplicitare la trasversalità e l'organica continuità di una ricerca che coincide con la sua vita stessa.
Così per esempio The Shape, The Scent, The Feel of Things, opera centrale, proposta dall'artista in diverse occasioni, ogni volta in forma diversa, si basa su un testo di Aby Warburg sulle proprie esperienze di viaggio tra le popolazioni native d'America. Jonas lo mette in relazione con i viaggi compiuti da lei stessa negli stessi luoghi negli anni Sessanta e nel 2004. «Quando ho approfondito la mia ricerca su Warburg, ho provato un'affinità per il suo modo di guardare alla storia dell'arte – scrive l'artista –. Le idee e le storie di diverse culture sono sempre state un elemento significativo della mia opera. Vedo il mio processo artistico attraverso la lente della storia e rapportandomi al viaggio». L'installazione è costituita da sei proiezioni, tre su schermo e tre a parete, un disegno bianco su carta nera con un serpente e numerosi oggetti di scena, tra cui un coyote impagliato, una chaise longue bianca, un sismografo e una serie di tele che compongono uno schermo lungo e basso. Lo spazio può evocare i connotati di un museo etnografico, dove sono raccolti reperti di cultura materiale provenienti da tempi e luoghi diversi. Uno dei video dell'installazione, Melancholia, fa a sua volta riferimento all'omonima incisione di Dürer citata anche negli scritti di Warburg, e ha come protagonista una performer che seduta, il mento poggiato sulla mano, interagisce con un cane fedele sullo sfondo di un paesaggio innevato. Come nell'incisione di Dürer, l'opera comprende una serie di elementi simbolici, tra i quali un solido geometrico.

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