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Questo articolo è stato pubblicato il 07 novembre 2014 alle ore 13:36.

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Howard Gardner, docente di Scienze cognitive e dell'educazione e di Psicologia alla Harvard University, Katie Davis, docente alla Scuola di informatica dell'Università di Washington, sono gli autori di un libro che analizza e spiega gli effetti e le conseguenze del mondo digitale sui giovani: “Generazione app”. L'aumento continuo di pervasività dei digital media e la conseguente esposizione della popolazione allo sviluppo tecnologico sono argomento di studio da oltre una decina di anni e la questione ha avuto un grande rilievo e risonanza in questi ultimi.

Il grande clamore, a livello scientifico e sociale, attorno alla questione dei giovani nati in epoca digitale ha preso avvio da due autori statunitensi che con libri e articoli ne hanno creato un caso di discussione. Marc Prensky, scrittore esperto di tecnologie a uso educativo, nel 2001 coniò la definizione Digital Natives per contraddistinguere i giovani nati in epoca digitale dai Digital Immigrants, cioè gli adulti. Marc Prensky fonda le sue osservazioni sugli studi medici del dottor Bruce D. Perry, professore di psichiatria e scienze dei comportamenti alla Feinberg School of Medicine a Chicago, che si occupa principalmente di bambini con problemi di salute mentale o traumatizzati da maltrattamenti. Bruce D. Perry sostiene che “Different kinds of experiences lead to different brain structures”, da qui prende le mosse Marc Prensky con la sua teoria secondo la quale le nuove tecnologie hanno cambiato e cambiano il funzionamento del cervello di chi ne è esposto. Nel 2009 è l'accademico Henry Jenkins a elaborare il concetto di Digital Natives in un'accezione più globale, non solo in un contesto di crescita o di scolarizzazione ma anche in un percorso sociale e lavorativo. Per Jenkins cultura e tecnologie sono strettamente connesse e formano quella che dovrebbe essere una cultura partecipativa, dunque non solo partecipazione nel contesto scuola ma anche in quello della comunità. L'uscita di “Generazione App” segna una tappa molto importante su queste riflessioni principalmente perché Gardner, celebre in campo scientifico anche per la sua teoria sulle intelligenze multiple, si è apprestato a questa analisi. Gardner e Davis hanno raccolto una gran mole di dati da interviste a ragazzi e docenti, tutti americani, e dai risultati temono che le nuove generazioni possano subire una specie di ingabbiamento da parte di software e tecnologie che consentono apparentemente infinite possibilità ma che, in qualche modo, rendono difficile esser o ragionare fuori dagli schemi.

Nonostante questa premessa piuttosto negativa i due studiosi cercano, soprattutto, di analizzare i mutamenti dovuti alle tecnologie per potervi interagire. Rimangono infatti fermi nella loro convinzione che la rivoluzione tecnologica (e culturale) porti a mutamenti nei percorsi di crescita non necessariamente negativi, solo diversi: e interagire con le diverse modalità è una sfida. La sfida di oggi è comprendere se un giovane sia app-dipendente o app-attivo. Tre sono le fondamentali aree dell'esistenza degli adolescenti prese in considerazione da Gardner e Davis: l'identità, l'intimità e l'immaginazione. Con la loro ricerca, gli autori trattano quali siano gli inconvenienti delle app, che possono squilibrare il senso d'identità, incoraggiare relazioni superficiali con il prossimo e ostacolare l'immaginazione. Gli studiosi non mancano di sottolineare i vantaggi, spesso enormi, che le app portano: possono promuovere una forte identità, consentire relazioni profonde e stimolare la creatività. Possono essere un freno o uno stimolo. La questione, dunque, sta nel saper andare oltre le modalità prestabilite di utilizzo e nell'introdurre una pedagogia della tecnologia per insegnare come e cosa trarre al meglio dal mondo digitale, e come difendersi.

Feltrinelli, 2014
Pag 215, euro 18

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