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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2014 alle ore 14:18.

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L'interpretazione della Bibbia fu un tema centrale del l'opera pittorica di Marc Chagall, che la considerava come la principale fonte di poesia di tutti i tempi: «Per me, come per tutti i pittori dell'Occidente – confessava – essa è stata l'alfabeto colorato in cui ho intinto i miei pennelli».
Così, quando nel 1930 Ambroise Vollard – gallerista, editore d'arte e sostenitore delle avanguardie post impressioniste – gli propose di illustrare il testo sacro del l'ebraismo, si tuffò nell'impresa con incondizionato ardore: addirittura spingendosi in Palestina per trarre dai paesaggi reali dello scenario mistico ispirazione o forse conferme a quella sua istintiva propensione a lavorare sulla luce e sulla poetica sarabanda di figure volanti. Questa immersione mistica non si esaurì infatti nell'impegno per Vollard, ma continuò tutta la vita, producendosi in più di quattrocento opere dedicate alla Bibbia sino al culmine del più famoso ciclo degli anni Sessanta. Una piccola mostra al Museo Diocesano di Milano mette a fuoco la centralità di questo tema, esponendo sessanta lavori eseguiti in varie fasi della sua vita con tecniche diverse: acqueforti, olii, ceramiche, sculture eccetera. Fulcro del l'esposizione sono le ventidue gouaches preparatorie (sinora inedite) che gettano luce sui procedimenti compositivi di Chagall, dall'uso vivace dei colori alla peculiare rappresentazione di episodi e personaggi, allo stesso tempo realistici e immaginifici nelle loro deliberate distorsioni prospettiche. Il sacro si mescola al profano, confermando una sua singolare confessione: «Ho sempre considerato clown, acrobati e attori come creature tragiche. Ai miei occhi assomigliano alla gente ritratta in certi quadri religiosi. Ancora oggi, quando dipingo una crocifissione o un altro quadro religioso, mi assalgono gli stessi sentimenti di allora, quando ritraevo la gente del circo».
L'eterogeneità dei materiali e la loro piccola dimensione rendevano però difficile il compito di esporre le opere in maniera congrua, soprattutto rispetto alla vastità del l'austera galleria del Museo (un vuoto di 45 metri sormontato da una bella sequenza di volte illuminate artificialmente dall'alto, nel braccio sud del chiostro di Sant'Eustorgio) che rende ancora più percepibile lo scarto tra le "miniature" pittoriche e lo spazio, scoraggiando una lettura da vicino e una percezione unitaria e sintetica dei vari soggetti. Fortunatamente queste difficoltà hanno trovato un interlocutore sensibile – lo studio milanese di Guido Morpurgo e Annalisa de Curtis – che ha saputo comporle in una soluzione che sorprende per la sua straordinaria efficacia comunicativa. Cuore dell'esposizione è infatti il grande cannocchiale prospettico – un'Arca, di sezione pentagonale (un richiamo al Pentateuco) – che contiene e allo stesso tempo protegge la suite delle gouaches, delle incisioni e delle piccole sculture in marmo di Carrara bianco. Per gli architetti si tratta di una rievocazione delle piccole sinagoghe dei villaggi rurali della Russia ottocentesca, ma si può anche immaginare questa fragile Arca come un richiamo a quella mitica di Noè, dove uomini e animali colti nel vortice del diluvio trovino provvisorio rifugio.
Ci sono molte maniere di concepire e praticare l'arte dell'allestimento: in ogni caso si tratta di una vera e propria arte, costretta a confrontarsi con la realtà fisica delle cose esposte, ma anche con quella psicologica ed emozionale del visitatore. Morpurgo e de Curtis dimostrano di padroneggiare tutti e due i corni del problema e l'emozione che prende all'ingresso della galleria si può considerare come un arricchimento e un regalo, perché aggiunge pensieri e associazioni a quelle evocate poi dal lavoro degli artisti.
Così, il primo impatto davanti alla soglia dell'Arca è garantito da una sorta di "macchina celibe" che aggiunge il tocco concettuale di Duchamp alla violenza espressiva di Chagall: un pendolo appeso al soffitto della navata dal lato d'ingresso espone, sospeso nel vuoto su un grande sfondo circolare, un dipinto su fondo blu raffigurante il Re David e dall'altro una lamiera di acciaio inox specchiante, che riflette e al contempo deforma leggermente l'intero spazio espositivo successivo. Se il pendolo richiama il mondo del costruttivismo e dei suoi autori, con i quali Chagall ha avuto rapporti negli anni della rivoluzione, dall'altro vengono alla mente le avanguardie surrealiste e cubiste della Parigi degli anni 20 in cui Chagall ha vissuto e con le quali ha avuto scambi e confronti.
Nella cura minuta con cui sono disegnati e realizzati i supporti espositivi – dalla scelta dei colori per le basi alle esili barrette metalliche che sorreggono le didascalie – trasuda la familiarità con la grande tradizione museale di Scarpa e Albini, ma senza presunzione didattica o referenze troppo dirette. D'altra parte Morpurgo e de Curtis sono anche gli autori dell'impressionante Memoriale della Shoah, al binario 21 della Stazione centrale di Milano, che ancora pochi conoscono perché i lavori di allestimento sono stati interrotti per mancanza di fondi. Peccato, perché queste drammatiche "caverne" di cemento e di ferro nella pancia della Stazione potrebbero offrire ai visitatori di Expo un cibo assai sostanzioso per la protezione dal l'intolleranza e dalla mediocrità artistica dei nostri tempi.
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