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Questo articolo è stato pubblicato il 09 novembre 2014 alle ore 14:17.

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«Erano le 10 di un martedì di novembre del 2007, mi chiamarono e mi dissero "Abbiamo la quasi certezza che sia uno dei suoi bambini, venga per il riconoscimento", vidi tutto nero, misi giù il telefono, mi precipitai, il corpo era quasi intatto, così acconsentii alla sepoltura. Tre anni dopo mi cercarono per il primogenito, riconobbi i suoi pantaloni verdi, li portava l'ultima volta che l'avevo visto… Ma c'erano solo pochi resti, io non potevo accettarlo, non volevo seppellirlo così. Poi dovetti rassegnarmi, andare avanti a cercare (nelle fosse comuni ndr) sarebbe stato un ulteriore calvario, mi dissero. Eppure, non li ho partoriti senza gambe o senza testa. Questo è quello che è successo. Sono rimasta sola, beh con voi mi sento meno sola. Parlate di Srebrenica: ciò che è accaduto non possiamo cambiarlo ma possiamo fare in modo che non accada più». Hatid-a Mehmedovic´ parla con voce pacata al memoriale di Potocvari, a Srebrenica appunto, davanti a 35 ragazzi italiani di 17 anni in lacrime o con la faccia contratta, come i loro accompagnatori in questo viaggio in Bosnia, nei luoghi di una guerra vicina e feroce. Stretta nel soprabito di pelle scura, il capo avvolto in un foulard, l'espressione malinconica, Hatid-a racconta la sua storia, che è quella di tante madri di Srebrenica: i due figli e il marito uccisi scelleratamente nel luglio del '95 nell'ambito di una guerra fratricida che coinvolse i Balcani fino al 2001, lo strazio del ritrovamento dei corpi ammassati nelle fosse comuni (mille vittime mancano ancora all'appello), la consapevolezza che molti dei responsabili del genocidio sono liberi e vivono sulle colline lì intorno, «grazie a coperture politiche importanti. Perché la Serbia continua a giocare due partite, da un lato condanna, dall'altro protegge». E questo è uno dei propositi dell'associazione delle madri di Srebrenica, che lei presiede: contribuire all'identificazione e all'incriminazione dei criminali, «molti sono anche scappati con documenti falsi».
Davanti a noi le decine di stele bianche del memoriale, dopo aver ascoltato la testimonianza di Hatid-a, hanno un significato ancora più forte, le parole incise su ciascuna di esse sono una vibrazione perenne: «E non dite che quelli che sono stati uccisi sono morti. No, sono vivi, ma questo voi non lo percepite». Gli studenti vagano tra le tombe, si soffermano, fotografano. Fanno parte di due classi di quarta di Pesaro, una del geometra Genga e l'altra del Liceo delle Scienze umane, preparate a questo progetto da tempo con letture, lezioni specifiche, film, perché della Bosnia e della guerra dell'ex Jugoslavia difficilmente un ragazzo ha mai sentito parlare. I professori hanno accolto con entusiasmo la proposta dell'associazione Lutva (si veda la scheda), che organizza questo viaggio con l'obiettivo meritorio di far capire alle nuove generazioni che cosa è successo al di là dell'Adriatico solo 20 anni fa. Srebrenica è in realtà il punto di arrivo di un itinerario che comincia a Mostar, in Erzegovina, dove proprio il 9 novembre del 1993 le bombe croate distrussero lo Stari Most (il Ponte vecchio), con un impatto fortissimo anche psicologico: il ponte, costruito nel 1566, era il simbolo dell'unione nella diversità, del legame che si manteneva saldo tra la comunità musulmana e quella croata da cinquecento anni. Quel simbolo fu ricostruito con gran parte delle sue stesse pietre, inaugurato nel 2004 ed ora patrimonio dell'Unesco, i tuffi dei giovani dalla sua sommità nel fiume Neretva sono ripresi – uno proprio sotto i nostri occhi! – ma la ferita resta e il riflusso turistico della vicina Medjugorje ha preso il sopravvento.
L'arrivo a Sarajevo, la capitale, l'epicentro della guerra, avviene lungo il maestoso viale dei Cecchini, come è stato ribattezzato. Percorrerlo lentamente in pullman, all'ora del tramonto, con le case sulle colline che lo guardano da lontano e i palazzi in quegli anni bersaglio delle bombe, ora ricostruiti, significa provare a visualizzare l'assedio. Le granate. Le corse a zig zag della gente per sfuggire alle pallottole. Gli incendi. Una città in trappola dal '92 all'inizio del '96 che però, come racconta Daniel Omeragic´, vicedirettore di Oslobod-enje (il principale quotidiano del Paese) allora reporter di 22 anni, ha lottato e vinto. I ragazzi ascoltano, seduti per terra nell'archivio della redazione, una delle espressioni più importanti della resistenza di Sarajevo: «I serbi bombardavano il nostro giornale perché volevano metterlo a tacere: raccontava quello che stava accadendo, la verità dava fastidio. In più, cosa non da poco, faceva da ponte con i giornali internazionali. Beh, non è passato un giorno senza che Oslobod-enje sia uscito. Abbiamo perso alcuni colleghi, in quegli anni», rievoca Omeragic´, spiegando che vivevano chiusi nel palazzo facendo turni di una settimana – troppo pericoloso era l'andirivieni quotidiano – e che il loro stipendio consisteva «in un pacchetto con zucchero, olio e poco altro. Lo zucchero nel '92 costava l'equivalente di 15 euro e un litro d'olio 50 euro. Non c'erano le edicole, andavamo noi a distribuire il giornale con le macchine, rischiando moltissimo». Omeragic´ si ferma un attimo, poi dice qualcosa cui sembra attribuire grande importanza e in effetti l'interprete traduce che «in redazione erano presenti tutte e tre le etnie (bosniaca musulmana, serbo-bosniaca e croata, ndr). Tra noi non c'è mai stato alcun conflitto o polemica, si discuteva normalmente su come scrivere un pezzo al meglio per i nostri cittadini».

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