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Questo articolo è stato pubblicato il 12 novembre 2014 alle ore 13:43.

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Sandro Veronesi è forse il più bravo e il più illusionista dei nostri romanzieri. Nelle sue mani qualsiasi oggetto della vita sociale e della vita privata si trasforma alchemicamente in narrazione: e da quel momento ci intriga. Il suo ultimo romanzo, Terre rare (sequel di Caos calmo (stesso protagonista, Pietro Paladini), cannibalizza l'intero immaginario contemporaneo. In esso l'autore ripesca, e rielabora, leggende metropolitane, notizie curiose, barzellette, gerghi, sketch teatrali, giochi di parole, canzoni, battute di Mastroianni e di Gilberto Govi, citazioni, nomenclature tecniche. Non c'è quasi pagina senza una invenzione memorabile, una trovata accattivante (perfino il tormentone, caro all'autore, degli elenchi…). Ad esempio Pietro si trova in una stanza davanti a una donna che lo ha appena imbrogliato, accanto un uomo giovane e alto, che però lui non riesce a mettere a fuoco: «mi succede con lui quello che mi è sempre successo con Ginger Rogers, vale a dire che a furia di non riuscire a levare gli occhi da Fred Astaire e dal suo sublime frullio io non saprei dire che faccia ha».

O anche la rivelazione del sistema con cui Al Qaeda si trasmetteva le informazioni, senza inviare nulla e senza rischio di intercettazione: usando le bozze di un acconto Gmail di cui si sapeva la password. L'effetto sul lettore può essere frastornante. Eppure i suoi romanzi non potrei mai rubricarli sotto la voce “intrattenimento”, che è poi quella trista coazione a divertire full time che affligge la nostra narrativa. Né evocano certi stucchevoli romanzi-magazzino del postmoderno, super-affollati di cianfrusaglie pop.

E anzi più di ogni altro scrittore Veronesi ci ricorda la vocazione intima del genere romanzesco, la sua anima più gelosa e intrattabile: dire l'”aspra verità” (Stendhal), e dirla anzitutto su di sé, sul mondo, sulla condizione umana (sempre mutevole e sempre fissa nei suoi pochi elementi di base). Pietro Paladini, ora cinquantenne, lo ritroviamo qui in una posizione sociale più precaria, ai limiti dell'illegalità – vende auto rubate, anche se non lo sa – , con una irresistibile propensione a ficcarsi nei guai e a conservare una miracolosa leggerezza. Un po' ci somiglia: al tempo stesso cialtrone e innocente, sognatore e opportunista. Insomma un commediante, a volte molto ingenuo ma con forte mentalità adattiva: scopre tra l'altro che solo dopo aver perso tutto potrebbe sentirsi vertiginosamente libero. Ma attraverso di lui Veronesi ci mostra senza veli una verità poco edificante, che riguarda la sua generazione, la società italiana, la aridità del nostro tempo. La pagina più acuminata è quando Pietro corre verso l'incidente di pullman in cui è stato coinvolto il figlio della sua compagna, e nella sua mente spunta un pensiero di “disarmante oscenità”: «Kevin non era figlio mio», e dunque la propria apprensione implicava “un piccolo orrendo segreto”, il compiacimento egoistico per il fatto che non fosse figlio suo.

A un certo punto capisce di non aver mai davvero amato sua moglie (scomparsa da tempo), di aver costruito l'intera vita “sull'infingimento”(un tema che ritorna dai tempi della Forza del passato). Ma è possibile fare altrimenti? La virtù dell'autore è quella di usare il genere italianissimo della commedia per esprimere però il tragico. E dunque: i conflitti principali dell'esistenza restano senza soluzione, tanto che l'unica cosa che può fare Pietro di fronte a essi è svenire, come accade, poniamo, in un'opera del nostro melodramma (o in Dante); e non siamo sicuri che la “rivelazione” che ne segue sia davvero decisiva, o che magari si tratti di un'altra maschera. Restano gli affetti privati, la relazione con la figlia (che diventa il suo mentore, con la metafora delle “terre rare”, la cui estrazione comporta la distruzione dei minerali che le contengono), il fantasma dell'utopia di una Famiglia unita, ma non c'è salvezza, benché si intraveda forse una minuscola via d'uscita.

Lo stile dell'autore – il romanzo è narrato in prima persona – potrebbe far arricciare il naso ai nostri degustatori di prosa d'arte: contiene infatti parole del vernacolo (”cazzaro”) o deformate da extracomunitari (”minchione” = “mincione”) e lievi scarti dalla norma (”una giornata croccante”), ma tutto è funzionale e si scioglie felicemente nel fluire della narrazione. Accennavo a una parvenza di via d'uscita. L'ultimo, breve capitolo è una storiella presa in Rete (e suggerita all'autore da Jovanotti). In un vulcano islandese, durante una gita di gruppo, si perde una signora. Le ricerche durano fino alle tre di notte, poi si scopre che la signora non si era mai mossa dalla corriera, solo che a una fermata era andata in bagno a cambiarsi e nessuno l'aveva riconosciuta, né lei si era identificata nella descrizione della persona dispersa che tutti cercavano. Non si tratta più solo di assecondare, taoisticamente, l'inclinazione del mondo, come veniva suggerito in Caos calmo: qui, nel teatro inesauribile dell'esistenza, accade di sparire a nostra insaputa (nessuno più ti riconosce), di cercare se stessi senza neanche saperlo, e anche se non ci eravamo per niente smarriti. Il fallimento, sigillo ultimo dell'impresa umana, potrebbe risolversi in una fuga involontaria da sé, per ritrovarsi dove sempre eravamo rimasti.

Sandro Veronesi, Terre rare, Bompiani, Milano, pagg. 406, € 19,00

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